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RAID IN LIBIA

Le basi agli Usa ci mettono nel mirino dell’Isis

Washington non ha chiesto ancora supporto all’Italia per le operazioni che conduce da quattro giorni in Libia contro lo Stato islamico. Eppure a Roma il governo sembra avere una gran fretta di accodarsi alla campagna aerea americana, se non mettendo in campo mezzi militari almeno fornendo le basi ai velivoli statunitensi.

Politica 05_08_2016
La base americana di Sigonella, in Sicilia

Washington non ha chiesto ancora supporto all’Italia per le operazioni che conduce da quattro giorni in Libia, la mini-guerra di Barack Obama contro lo Stato islamico a Sirte impiegando pochi aerei, droni ed elicotteri basati sulla portaelicotteri Wasp e in Giordania. Eppure a Roma il governo sembra avere una gran fretta di accodarsi alla campagna aerea americana, se non mettendo in campo mezzi militari almeno fornendo le basi ai velivoli statunitensi. Soprattutto ai droni armati Reaper che proprio il governo Renzi aveva ordinato non fossero impiegati sulla Libia in missioni di attacco appena pochi mesi or sono, quando venne rinegoziato l’impiego delle basi americane in Italia.

Invece, mercoledì il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, ha detto che il governo è pronto a «considerare positivamente un eventuale utilizzo delle basi e degli spazi aerei nazionali a supporto delle operazioni, dovesse tale evenienza essere ritenuta funzionale a una più efficace e rapida conclusione dell'azione in corso in Libia». Cioè,  siamo pronti dare le nostre basi se questo consentirà agli Usa di colpire meglio e più rapidamente l’Isis. A illustrare in Parlamento la nuova posizione del governo sono andati invece due sottosegretari, Domenico Rossi per la Difesa e Vincenzo Amendola per la Farnesina.

«Ci auguriamo che l'intervento americano in Libia contro l''Isis sia risolutivo». «Un messaggio molto forte per la lotta al terrorismo» oltre che un aiuto «per la stabilizzazione» ha detto Amendola ribadendo quanto già affermato dal ministro Paolo Gentiloni. Le operazioni aeree americane condotte fino ad ora, ha precisato Rossi, «non hanno interessato in alcun modo l'Italia ma il nostro Paese non resta indifferente» e «mantiene aperta una linea di dialogo diretta sia con la controparte libica sia con gli alleati americani per verificare lo sviluppo dell'operazione e le eventuali esigenze di supporto indiretto». Il governo «è pronto a considerare positivamente un eventuale utilizzo delle basi e degli spazi aerei nazionali a supporto dell'operazione, dovesse tale evenienza essere ritenuta funzionale a una più efficace e rapida conclusione dell'azione in corso».

Le opposizioni erano infuriate per l’assenza dei ministri che qualcuno ha interpretato con la volontà di non «metterci la faccia» nel momento in cui l’Italia preme per entrare in guerra, anche se senza combatterla con sue truppe e mezzi. Eppure, la mozione di sostegno alla linea del governo ha avuto 225 voti a favore e 82 contrari. Del resto, già nell’estate 2014, quando Roma aderì alla Coalizione contro l’Isis, Arturo Parisi, ex ministro della Difesa del Pd, mise in guardia che l’adesione alla Coalizione, anche se con aerei disarmati e con forniture di armi e consiglieri militari ai curdi, rendeva l’Italia belligerante con tutti i rischi e le conseguenze del caso.

Un rischio molto più concreto ora, anche se finora l’Italia è stata risparmiata dall’offensiva terroristica proprio in virtù della sua “finta” guerra al Califfato, limitata a istruttori per i curdi e aerei e droni disarmati in volo sull’Iraq. Difficile quindi comprendere la fretta di Roma di schierarsi con gli Usa in un intervento militare troppo limitato per essere risolutivo e che rischia di destabilizzare il governo di Fayez al-Sarraj invece di consolidarlo. Se in questo modo il governo Renzi cerca protagonismo può anche rassegnarsi: l’intervento di Washington richiesto dal governo di Tripoli ha definitivamente messo l’Europa e l’Italia ai margini della crisi libica con un ruolo del tutto irrilevante.

Il generale Mohamed al Ghasri, portavoce delle forze governative che partecipano all'operazione militare per la liberazione di Sirte ha espresso il favore per l’iniziativa italiana. «Siamo favorevoli all'uso delle basi aerei italiane e saremmo molto felici se Roma prendesse una decisione in tal senso e le mettesse a disposizione nell'azione degli Usa contro Daesh a Sirte». Ciò detto, è però quasi ridicolo che Roma offra, con il sostegno libico, basi agli Usa che Washington non ha ancora chiesto. Quello che occorrerebbe dire chiaramente, meglio se a farlo fossero premier e ministri invece di sottosegretari, è che il passo avanti dell’Italia non sarà a costo zero.

Anzi, pare certo che anche l’Italia pagherà il ruolo bellico più deciso subendo le azioni  terroristiche che non hanno risparmiato molte Nazioni coinvolte in prima linea nella guerra all’Isis. Una simile esposizione varrebbe la pena accettarla solo in caso di intervento diretto delle truppe e dei velivoli italiani contro lo Stato Islamico e non solo perché consentiamo l’uso delle nostre basi agli statunitensi per un’operazione di breve durata (30 giorni) e bassissima intensità (5 raid al giorno) che molti analisti considerano troppo blanda per risultare più efficace.

Non a caso un veterano come il generale Marco Bertolini, paracadutista e incursore da un mese a riposo dopo una brillante carriera operativa, ha detto in un’intervista che«i raid aerei da soli non possono essere sufficienti, occorre una ricaduta sul terreno, occorrono truppe che facciano la guerra sul serio. È accaduto in Afghanistan, come sta accadendo ora in Iraq e anche in Siria. A seguito dei bombardamenti, mirati o meno, le milizie devono bonificare il territorio». Altrimenti - spiega Bertolini - è tutto inutile. Sirte in fondo è un piccolo episodio febbrile. Ma se si vuole curare la malattia, non si può dimenticare che dietro quella cittadina costiera c'è lo sterminato Sahara. Occorre impedire ai terroristi di disperdersi nel deserto, sennò il problema si riproporrà presto da qualche altra parte. Magari nemmeno più in Libia.