Lavorare meno, lavorare tutti, ci risiamo. Ma è sbagliato
Ore di lavoro ridotte a parità di stipendio – come quando si diceva: “Lavorare meno, lavorare tutti” – e sussidio d’emergenza: tornano i due principali cavalli di battaglia dell’assistenzialismo di Stato. Che cosa ne direbbe la Dottrina sociale della Chiesa? Ne direbbe male, non c’è dubbio.
Ore di lavoro ridotte a parità di stipendio – come quando si diceva: “Lavorare meno, lavorare tutti” – e sussidio d’emergenza: tornano i due principali cavalli di battaglia dell’assistenzialismo di Stato. Che cosa ne direbbe la Dottrina sociale della Chiesa? Ne direbbe male, non c’è dubbio.
L’esperienza degli interventi economici del governo Conte durante la fase 1 e poi in vista della fase 2 testimoniano una precisa visione delle cose. Il virus non è stato affrontato, ma si è fatta fermare l’Italia per tenere lontani i cittadini dal pericolo. Come quando non si pensa a spegnere il fuoco ma si dice a tutti di tenersi alla larga sperando che il fuoco si esaurisca da solo. Un Paese con un sistema sanitario adeguato e con la capacità di reperire in fretta – senza bisogno di Commissari ad hoc – i dispositivi di protezione avrebbe potuto continuare a lavorare e a produrre. Ciò che invece si è fatto ricorda quello che decise di tagliarsi la testa per eliminare il mal di testa: il blocco di ogni attività su tutto il territorio nazionale ha sottratto linfa vitale alla nazione che ora ha il volto pallido del malaticcio.
La stessa mentalità – non aggredire positivamente il problema ma tenere tutti alla larga – anima ora le due proposte della riduzione delle ore lavorative a parità di stipendio e del sussidio di emergenza. Anziché investire nella ripresa, il governo mira a proteggere chi sarà danneggiato dalla mancata ripresa, che in questo modo però il governo rende massimamente certa. Pensare a soluzioni assistenziali e stataliste che appesantiscono in un momento in cui bisogna invece alleggerire per far ripartire non l’economia artificiale ma quella reale è sbagliato. Due dati relativi agli interventi governativi sono certi: la cassa integrazione non è ancora arrivata e il prestito alle aziende garantito dallo Stato non funziona per nulla. In altre parole: non si provvede a fare gli interventi che favoriscano la ripresa e si pensa a soluzioni di assistenza universalistica compensativi dei danni di una ripresa che non parte perché non la si fa partire.
Le imprese non vedono l’ora di ripartire, è lo Stato che le frena e non solo per cautela nel contagio, ma per i suoi vizi congeniti che consistono nel fiaccare e demoralizzare le iniziative libere e dal basso e poi intervenire dall’alto e a pioggia per sussidiare gli scompensati che proprio i vizi statali hanno prodotto. È la stessa logica che lo Stato applica alla famiglia: distrugge la famiglia e poi sviluppa l’assistenza pubblica al disagio familiare. Non sarebbe più saggio e più economico aiutare la famiglia ad essere se stessa anziché indebolirla sistematicamente per poi curarla con gli assessorati al sociale e le Asl? Ma a ben vedere se lo Stato facesse questo ridurrebbe se stesso, compresa la sua potente macchina burocratica.
Ecco un’altra contraddizione: La burocrazia ha fatto molti danni in questi due mesi di coronavirus. Tutti dicono – ma ormai è da decenni che lo dicono - che bisogna snellire. Però il sussidio di emergenza richiederà di compilare fiumi di carte e di attivare sportelli su sportelli, quindi aumenterà il carico burocratico, che alla fine è quanto lo Stato vuole per conservare se stesso. Il primo scopo di ogni più piccolo ufficio del sistema statale è conservare se stesso, così è per la macchina in generale.
Se da queste osservazioni legate all’esperienza di questi due mesi di quarantena passiamo al livello dei principi della Dottrina sociale della Chiesa, troviamo conferma definitiva, dottrinale e non solo empirica, che le due proposte sono da rifiutare.
La decisione presa dall’alto del potere politico di ridurre l’orario di lavoro lede la responsabilità degli imprenditori e delle imprese che hanno per primi il dovere e il diritto di produrre la ricchezza di cui la nazione ha bisogno e di organizzare il proprio lavoro, tenendo conto delle varie esigenze anche locali. Le imprese sono parte integrante dei cosiddetti “corpi intermedi” che devono avere la possibilità di regolarsi in autonomia rispetto alle logiche della politica centralistica dello Stato. Non è corretto che a decidere sulla loro pelle siano task-force di nomina governativa, la ripresa va messa in mano a chi la dovrà poi condurre. Altrimenti di che sussidiarietà stiamo parlando? Lo Stato deve liberare iniziativa e risorse, non comprimerle
La solidarietà nei confronti di chi non regge il ritmo è un problema vero e serio, ma non può passare da forme di assistenza universalistica e super-burocratizzata (ricordiamo il sistema informatico dell’Inps in tilt?), ma dalla solidarietà familiare – per la quale però occorre la famiglia, non dimentichiamolo - e da quella espressa dai corpi sociali intermedi, che lo Stato deve aiutare ad esprimersi e non schiacciare facendo passare perfino l’elemosina dai propri uffici
Non deve essere lo Stato a decidere di chiudere le scuole in tutto il Paese, anche laddove non ce n’è alcun bisogno per poi decidere, sempre lo Stato, quando e come farle ripartire. Il sistema scolastico – come quello produttivo – non è un settore interno alla burocrazia statale, come purtroppo invece viene oggi considerato e non solo dal ministro Azzolina.