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LA PROTESTA

L'Aventino anticomunista dei democratici di Hong Kong

Il regime comunista di Pechino ha imposto per la prima volta il licenziamento di quattro deputati d'opposizione nel parlamento locale di Hong Kong. Per protesta, tutti i deputati democratici hanno rassegnato le dimissioni, lasciando per la prima volta il Consiglio Legislativo senza un'opposizione. Ma il regime cinese tira dritto e ritiene che la sua sia una giusta applicazione della legge

Esteri 12_11_2020
I deputati democratici di Hong Kong dopo le dimissioni in blocco

Il regime comunista di Pechino ha compiuto ancora un passo nella direzione del totale annullamento dell’autonomia di Hong Kong. Sebbene l’ex colonia britannica, restituita alla Cina nel 1997, sia ancora formalmente un territorio governato da leggi separate fino al 2047, la Repubblica Popolare le ha imposto una Legge per la Sicurezza nazionale che, di fatto, stabilisce il controllo totale. Per la prima volta, questa norma ha portato all’espulsione di quattro parlamentari dall’organo legislativo locale. Per protesta, tutti i parlamentari democratici hanno rassegnato le dimissioni, in un Aventino contro il potere totalitario comunista cinese.

I deputati Alvin Yeung, Dennis Kwok, Kwok Ka-ki e Kenneth Leung sono dunque i primi ad essere espulsi dal Consiglio Legislativo (il parlamento autonomo di Hong Kong) per ordine della Repubblica Popolare Cinese. La loro estromissione è stata decisa direttamente dal Comitato permanente del Partito Comunista Cinese a Pechino, giusto per far capire agli hongkonghesi chi detiene ormai il controllo politico sulle loro vite. Il Comitato ha infatti emesso una risoluzione che applica la nuova normativa anche ai parlamentari: coloro che sostengono l’indipendenza di Hong Kong, o rifiutano di riconoscere la sovranità cinese su Hong Kong, o chiedono a forze straniere di interferire negli affari del territorio, o commettono atti che minacciano la sicurezza nazionale devono essere allontanati dalla politica attiva. E’ “un onore” essere squalificati per “la lotta per la democrazia e per i diritti umani”, ha dichiarato Dennis Kwok in conferenza stampa subito dopo la sua espulsione. Sia lui che gli altri deputati estromessi non erano indipendentisti di Hong Kong e mai si sarebbero sognati di chiedere “a forze straniere” di intervenire contro Pechino. Si trattava infatti di parlamentari moderati, accusati però di opporsi alle decisioni del partito maggioritario filo-Pechino.

L’azione unilaterale e arbitraria del regime di Pechino ha provocato, ieri, la reazione aventiniana dell’intera opposizione democratica. Tutti i membri del gruppo pro-democrazia del Consiglio Legislativo (15 parlamentari) hanno rassegnato le loro dimissioni, lasciando il parlamento locale senza alcuna opposizione, per la prima volta nella sua storia. Wu Chi-wai, presidente del gruppo ora dimissionario, ha definito “totalmente ridicola” l’estromissione dei quattro deputati per volontà di Pechino. “Non possiamo più dire al resto del mondo che è ancora in vigore il principio ‘Un Paese, due sistemi’ (la piena autonomia di Hong Kong concordata fra Pechino e Londra in vista della restituzione del 1997, ndr). Questo evento è una proclamazione ufficiale della sua morte”

Carrie Lam, la “governatrice” (capo dell’esecutivo) di Hong Kong, volente o nolente allineata a Pechino, ha precisato di non avere il potere di estromettere parlamentari. Ma la risoluzione annunciata da Pechino ha fatto sì che il governo di Hong Kong dovesse applicarla. Comanda Pechino, dunque, l’esecutivo locale non può fare altro che eseguire le direttive di regime. Coerentemente a questa logica, il portavoce del Ministero degli Esteri cinese, Wang Wenbin, ha dichiarato che l’espulsione dei quattro deputati è stata una scelta “razionale, ragionevole e in linea con la Costituzione e le leggi”. Dunque, a suo dire: “Era un requisito necessario per l’adesione e il rafforzamento del principio ‘Un Paese, due sistemi’, applicando la Basic Law (la costituzione del 1997, ndr) di Hong Kong così come la Legge per la Sicurezza nazionale”. Wang Wenbin parla molto probabilmente in buona fede, a nome del Ministero: dal punto di vista cinese, non devono esistere diversità all’interno della sovranità. Hong Kong è parte del territorio sovrano cinese, dunque l’autonomia di cui ha goduto finora non deve essere “abusata”. Se c’è un dissenso politico, lo si elimina, prima è toccato agli attivisti e ai leader della protesta, adesso anche ai parlamentari. Se c’è un parere difforme, lo si censura, come dimostra il caso terribile degli editori e librai hongkonghesi rapiti in Cina. E presto toccherà anche alla religione, probabilmente non sfuggirà alla campagna di “sinizzazione”, eufemismo con cui viene chiamata l’imposizione dell’ateismo di Stato.

Ma Londra, che ha restituito Hong Kong e ha ottenuto formalmente la garanzia per la sua autonomia fino al 2047, ha almeno qualcosa da dire? La reazione britannica è stata più forte che altrove, con la concessione di passaporti britannici a tutti i “residenti d’oltre mare” di Hong Kong. Ieri, commentando l’Aventino asiatico, il ministro degli Esteri Dominic Raab ha definito la risoluzione cinese un “ulteriore assalto all’autonomia di Hong Kong e alla sua libertà, previste dalla Dichiarazione congiunta sino-britannica”. Oltre alle dichiarazioni, si attendono ora ulteriori azioni concrete.