L’arte della buona battaglia contro i vizi
Ne L’arte della buona battaglia, don Fabio Rosini affronta il tema del combattimento interiore a partire dagli otto loghismói, i pensieri maligni alla radice dell’inganno umano secondo quanto scrive Evagrio Pontico, monaco del deserto del IV secolo. Contrastare questi nemici della vita interiore, col sostegno della grazia divina, consente pertanto di vivere nella vera libertà dei figli di Dio.
«Ogni atto ha una sorgente, sia nel bene che nel male», ma tutto parte dai pensieri. Muove da tale consapevolezza L’arte della buona battaglia (San Paolo 2023, pp. 399), l’ultimo libro di don Fabio Rosini, nel quale il sacerdote romano affronta il tema del combattimento interiore a partire dagli otto loghismói, i pensieri maligni alla radice dell’inganno umano secondo la suddivisione operata da Evagrio Pontico, monaco del deserto del IV secolo. Contrastare tali nemici della vita spirituale, con l’ausilio della grazia divina, consente infatti di spianare la strada alla vera libertà dei figli di Dio.
È una battaglia che ha come campo il cuore dell’uomo. Il nostro io è infatti popolato da tre ordini di pensieri. Oltre ai pensieri propri, legati alla propria volontà e libertà, ci sono «i pensieri angelici che gettano luce, ad esempio, sul fine, lo scopo, la meta delle cose o degli eventi», ossia quelli che vengono dallo Spirito Santo, e i «pensieri diabolici, spesso tendenti al colore emozionale o passionale, il cui carico emotivo è normalmente ordinato al possesso e a una relazione con la realtà centrata sull’ego».
Omissioni, assolutizzazioni, superficialità, contaminazioni tra bene e male e false rappresentazioni sono gli spiragli attraverso cui il maligno si fa strada, col rischio di «un up-grade pericoloso di immagine/affezione che è proiettata sulle idee – che non per caso hanno la stessa matrice etimologica della parola idoli – per cui si diventa affezionati a delle idee che divengono degli assoluti e non si sa rinunciare alle proprie impressioni». Occorre perciò anzitutto arginare questi ostacoli attraverso la preghiera, l’analisi e l’interrogazione dei propri pensieri.
Al cuore dei loghismói, «suggestioni che hanno lo scopo di turbare l’anima», vi è la filautia, quella «centratura nel proprio ego che deriva dall’orrore del vuoto. Il terrore per se stessi diventa ansiosa e disordinata celebrazione di sé, dei possessi e dei propri bisogni». Questa radice malvagia fa essere «amico di sé contro se stesso», per dirla con san Massimo il Confessore.
Il primo dei loghismói è la gola, o meglio la gastrimarghia, quella sregolatezza del ventre che non riguarda solo l’ingordigia ma la brama di sapere, assimilare e provare tutto per sentirsi appagati. Di qui accade che «non ci si nutre per vivere, ma si vive per nutrirsi e per godere delle cose», per cui la vita «diventa la ricerca prolungata di orgasmo e ricerca di compensazione in ogni atto». Tale meccanismo della gola è dunque alla base di tutte le forme di dipendenza. Ci si aliena per il piacere di un attimo, senza considerare che «il mostro strisciante dentro ogni peccato di gola è la fuga da un dolore». Questo demone si combatte col dominio di sé, attraverso il digiuno quale «orientamento a un cibo migliore» per riscoprire il gusto delle relazioni con Dio, se stessi e gli altri.
Anche la lussuria è in sostanza «la gola che agisce nella sfera della genitalità; assolutizza alcuni millimetri di epidermide e banalizza il tesoro che c’è dentro ogni persona, per cui chi ha conquistato tanti corpi, ma non ha saputo essere fedele ad un solo cuore, non sa niente del vero piacere». Per combatterla è necessario custodire la purezza del cuore.
«L’avarizia porta a vedere ogni perdita come una tragedia. Di qui l’avaro manda l’attenzione in multi-tasking; se un figlio parla intanto si controlla il telefono, se c’è una telefonata intanto bisogna fare altro, perché un avaro non può perdere tempo o occasioni, ha l’ansia della perdita e va in caduta continua di attenzione perché tutto può distrarlo». L’avarizia è «“un calcolo di accumulazione”: cioè la mente dell’avaro sta sempre lavorando per risparmiare; dovunque va si chiede come può risparmiare. Praticamente non si gode la vita. Ha questo retro-pensiero, il calcolo». Per superarla occorre praticare distacco e donazione, non tanto diventando «così generosi da dare i propri beni, ma così saggi da prendersi quelli veri. Cuore del distacco è allora la memoria della paternità di Dio».
Poi c’è «l’ira che, per sua natura, fa perdere il paradiso, perché si oppone alla misericordia, unica porta di accesso al cielo; assolutizza una percezione, è pretestuosa». Per contrastarla è necessario favorire invece la magnanimità.
Un loghismós che non è nell’elenco dei vizi capitali occidentali è la tristezza, poiché non è un atto ma un atteggiamento che «rimesta nel male e gode del dispiacere come suo piacere; gioca su ipotesi, rimpianti e proiezioni ed è culto della frustrazione che produce ulteriore frustrazione». La tristezza «da bambini si manifesta con il beccuccio fatto con le labbra che fa tenerezza, da adolescenti è l’argomento in tasca per avere sempre ragione con l’autorità, da adulti è la scusa per i propri peccati e da vecchi è amarezza». Si combatte con la gioia, che «è una scelta che costa l’abbandono di ciò che non ci fa bene anche se apparentemente ci fa godere. Allora la gioia non capita, si sceglie, si asseconda, gli si obbedisce e poi si difende».
L’accidia non è solo l’indolenza, ma «è l’incapacità di perseverare e soprattutto non fare ciò che andrebbe fatto e l’avversione a tutto ciò che costa fatica». Un vizio simile deve essere contrastato dalla pazienza, virtù che consente di riscoprire che «il mio tempo è quello che è, Dio mi dà delle occasioni, mi apre delle porte, e io non ho altra salvezza che sfruttarle».
L’invidia è ancora la vanagloria di «chi vive di like nella pretesa di superare qualcuno e questo è vapore ed inseguire il vento». Tale vizio si combatte con la modestia e la benevolenza mentre si ricerca nel silenzio interiore la vera gloria e si vive in comunione coi propri fratelli.
Infine la superbia, «avversaria di Dio, ha il suo culmine nel rifiuto dell’aiuto di Dio e nell’esaltazione dei propri sforzi. Nel delirio del superbo i suoi pensieri equivalgono alla verità». Il vizio principe di tutti gli altri si combatte con l’umiltà, che è «un rapporto sano con la propria fragilità», il quale comporta anche una disponibilità a «lasciarci correggere dalla vita che è la sapienza di Dio e a imparare a riconoscere le proprie opere buone come un dono di Dio», nella fiducia che è la sua grazia a renderci vincitori contro ogni vizio nella misura in cui ci lasciamo raggiungere e trasformare dall’amore di Cristo. D’altra parte – conclude don Fabio Rosini – «se non ho amore, a che serve vincere i pensieri maligni?».