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HONG KONG - CINA

L’arresto del cardinale Zen è una sfida per il Vaticano

Mentre la domanda più ricorrente sui media riguarda le intenzioni della Cina, l’arresto del 90enne cardinale Zen pone un grave imbarazzo per la Santa Sede, la cui prima reazione è di sostanziale silenzio. In ballo c’è il rinnovo dell’accordo segreto con la Cina per la nomina dei vescovi, ma sarebbe un disastro se a questo si sacrificasse la libertà di un cardinale e della Chiesa.

Editoriali 12_05_2022 English Español
Il cardinale Zen

L’arresto a Hong Kong del cardinale Joseph Zen l’11 maggio, in base alla legge sulla sicurezza nazionale in vigore dal 2020, è un avvenimento scioccante che solleva molte domande ed è presagio di tempi molto bui per Hong Kong e non solo. Il fatto che sia stato rilasciato su cauzione (e lo stesso è accaduto per le altre 3 persone arrestate con lui) non toglie nulla alla gravità e alla brutalità del gesto. 

Come noto al cardinale Zen è contestato l’aver fatto parte di un comitato che ha raccolto e distribuito fondi per aiutare gli attivisti democratici di Hong Kong che sono stati arrestati dopo la violenta repressione delle manifestazioni del 2019 contro la nuova legge sulle estradizioni in Cina. Comitato che peraltro è stato chiuso lo scorso ottobre proprio a causa della nuova legge sulla sicurezza nazionale.

La domanda che maggiormente ricorre sulla stampa internazionale riguarda il perché la Cina (nessun dubbio che dietro la decisione delle autorità di Hong Kong ci sia Pechino) abbia voluto fare un gesto del genere, colpire un anziano cardinale di 90 anni che da molti mesi ormai ha scelto la strada del silenzio: «Le persone in questione – hanno fatto sapere dall’ufficio di Hong Kong del Ministero degli Esteri cinese - sono sospettate di cospirazione in collusione con paesi o forze straniere mettendo in pericolo la sicurezza nazionale. Si tratta di un atto grave». E il fatto che ad essere entrato nel mirino della polizia sia una personalità religiosa «è completamente irrilevante», dicono sempre all’ufficio cinese: «Nessuno è al di sopra della legge». Il che però non risponde effettivamente alla domanda.

In realtà, dice Mark Simon, che per dieci anni è stato braccio destro dell’imprenditore editoriale cattolico Jimmy Lai, anche lui finito nelle maglie della giustizia per la sua partecipazione al movimento democratico, «la Cina ha paura del cardinale Zen». Lo ha scritto ieri sul Washington Post, sottolineando che Zen resta «l’ultimo simbolo del movimento democratico di Hong Kong» che resiste saldamente alle pressioni dell’apparato di sicurezza cinese. E gli viene riconosciuto ancora un notevole potere «come forza di resistenza nella Chiesa cattolica di Hong Kong». A rendere pericoloso il cardinale Zen per il regime cinese, dice Simon, è «la sua integrità morale, il suo coraggio e il potere della sua testimonianza», oltre alla «sua umanità, generosità e compassione». In altre parole, conclude Simon, «il cardinale Zen è tutto ciò che non è il brutale regime cinese», che quindi lo vede come un pericoloso antagonista.

Ma se è lecito farsi domande sui perché della Cina, ancora più interessante è capire le reazioni vaticane. Perché, in effetti, il cardinale Zen è un fastidio anche per Roma. Le sue critiche all’accordo segreto sino-vaticano sulla nomina dei vescovi, siglato giusto 4 anni fa, sono state durissime e ripetute, e in modo particolare se l’è presa con il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, giudicato il principale artefice di questo accordo. Né si può dimenticare quanto successo nel settembre 2020, alla vigilia del rinnovo dell’accordo tra Cina e Santa Sede, quando il cardinale Zen si presentò a Roma chiedendo invano di poter incontrare personalmente il Papa e dovette tornare a Hong Kong umiliato e a mani vuote.

La scarna dichiarazione rilasciata dal direttore della Sala Stampa Matteo Bruni nella serata dell’11 maggio, tradisce l’imbarazzo: «La Santa Sede ha appreso con preoccupazione la notizia dell’arresto del cardinale Zen e segue con estrema attenzione l’evolversi della situazione», Praticamente un tentativo di prendere tempo per pensare a cosa dire e cosa fare. Neanche un riferimento al Papa, alla sua auspicabile vicinanza con un cardinale arrestato e al ricordo nella preghiera per chi è vittima di tale ingiustizia. Nulla. La Santa Sede pensa anzitutto all’accordo con la Cina per il quale si dovrà decidere a breve sull’eventuale rinnovo, ed evita di pronunciare una qualsiasi parola che possa urtare l’interlocutore cinese.

Recentemente il cardinale Parolin ha lasciato intendere che anche in Vaticano cominciano a nascere dubbi sull’efficacia di questo accordo per la Chiesa cattolica, e in una intervista ad Acistampa ha detto di sperare nella possibilità di cambiare qualcosa nell’accordo. Sia voluta o no, l’arresto del cardinale Zen è una chiara risposta da parte cinese: una prova di forza, la dimostrazione di chi comanda e detta le condizioni. E simbolicamente colpisce proprio il cardinale Zen, il più grande oppositore di questo accordo.

Dalle prime reazioni, l’impressione è che la Santa Sede sia stata colta di sorpresa, dimostrando in tal modo di non conoscere affatto il regime comunista cinese e neanche cosa stia accadendo a Hong Kong. E che ancora una volta si adeguerà alle condizioni imposte da Pechino, quali che siano. Sarebbe un disastro per la Chiesa cinese e non solo.

Si può solo sperare che, dopo lo smarrimento iniziale, in Vaticano si sveglino e prendano atto che il bene della Chiesa non può essere in contrasto con il bene dei cattolici e con la chiarezza su dove sia la luce della fede. E che davanti all’arresto brutale di un cardinale 90enne che ha sempre difeso il popolo cattolico cinese e la popolazione di Hong Kong, non si può neanche far pensare che la Santa Sede stia dalla parte di chi lo perseguita. Se c’è un momento in cui si deve alzare la voce è questo.