L'"arcipelago gulag" della Corea del Nord
Finalmente l'Onu avanza un'inchiesta ufficiale contro la Corea Nord. Intanto, si allarga il campo di rieducazione comunista all'interno dei confini: il culto del nuovo leader supremo, Kim Jong-un chiede ancora più sangue.
Il Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu, a Ginevra, lo scorso 21 marzo, ha avviato un’inchiesta sull’arcipelago gulag della Corea del Nord. La decisione è stata presa sulla base dell’ultimo rapporto sulla violazione sistematica dei diritti umani nel “regno eremita”, datato 1 febbraio 2013. Gli “Special Rapporteur” Vitit Muntarbhorn e poi Marzuki Darusman hanno inviato annualmente all’Onu documenti sulla Corea del Nord dal 2004. Su quel regime totalitario sono state adottate 16 risoluzioni dall’Assemblea Generale e si sono accumulati ben 22 rapporti. Non vi è stata, finora, alcuna risoluzione del Consiglio di Sicurezza (l’unica che avrebbe avuto un carattere vincolante) in merito al sistematico abuso subito dai cittadini dell’ultimo regime autenticamente stalinista al mondo. Quella avviata il 21 marzo è la prima inchiesta del Consiglio dei Diritti Umani sulla Corea del Nord.
Eppure, quel regime opera sempre con gli stessi metodi disumani sin dalla sua fondazione, nel 1948. All’interno dei suoi confini impermeabili, si stima che siano stati assassinati o fagocitati nel vasto arcipelago gulag circa 1 milione e mezzo di cittadini. Il gulag, il campo di lavoro forzato e “rieducazione” politica ereditato pari pari dal sistema creato da Lenin e Stalin, è solo un aspetto della repressione. Tutto il territorio è un gigantesco campo di lavoro forzato: i cittadini sono a disposizione dello Stato, che li può trasferire ovunque servano per scavare canali, costruire dighe, disboscare foreste, edificare infrastrutture militari. Studenti, impiegati, contadini… tutti possono essere richiamati alle corvée di regime. Tutte le terre sono interamente di proprietà dello Stato. Ed è il Partito unico al potere che decide come, quando e a chi distribuire il cibo. Quando si parla di “carestia” nordcoreana, con milioni di vittime, spesso si dimentica questo dettaglio: è il potere di Pyongyang che decide chi deve vivere e chi, invece, può solo morire di fame.
Tutto il territorio nordcoreano è un gigantesco campo di rieducazione. Con censimenti periodici, il partito comunista decide chi è un cittadino di serie A, B e C. Nell’ultima classe ci sono gli “elementi ostili”, che hanno avuto la sventura di nascere dalla parte sbagliata del confine con la Corea del Sud, o di avere avuto dei parenti considerati “controrivoluzionari” anche tre generazioni prima. Tutti costoro vanno ad alimentare la popolazione dei gulag ed anche quando sono liberi sono comunque tenuti ai margini della società. Ci sono poi i sorvegliati speciali, gli “ondivaghi”: basta che abbiano un parente in Corea del Sud o all’estero perché rientrino in questa classe. I cittadini che hanno meno problemi, considerati sudditi fedeli, sono appena un quarto della popolazione. Chi pratica una religione, anche chi appena possiede una Bibbia o tiene un crocefisso, è considerato un malato di mente e confinato in uno dei tanti manicomi criminali gestiti dal regime. Le religioni non devono esistere, all’infuori del culto della personalità per il leader supremo.
Kim Il-sung, fondatore dello Stato, suo figlio Kim Jong-il (morto l’anno scorso) e il nipote Kim Jong-un, attualmente al potere, sono venerati al pari di divinità. Un insulto nei loro confronti, una semplice battuta, una velata critica espressa in privato, possono costare carcere e lavori forzati, stando alle testimonianze dei fuoriusciti. Spie e delatori sono ovunque. Negli anni ’80, ad esempio, un bambino urtò e fece cadere un ritratto di Kim Il-sung nella sua classe: vennero internati genitori e insegnante. Il culto della personalità chiede sangue. E anche far parte degli alti vertici del partito non risparmia da un controllo sistematico e dal rischio di scomparire dalla faccia della terra sulla base di un semplice sospetto.
Il gulag nordcoreano, il “regime a dittatura speciale”, come viene ufficialmente chiamato, è il più duro dei gironi dell’inferno nordcoreano. Un sopravvissuto, Kang Chol-hwan, c’è finito dentro all’età di nove anni. Scontava la colpa di suo nonno, accusato di “spionaggio”: non solo vengono colpiti gli accusati e i sospetti, ma tre generazioni della loro famiglia. Kang Chol-hwan, nella sua autobiografia L’ultimo Gulag, è testimone di orrori di ogni genere. L’Auschwitz (o meglio: la Kolyma) nordcoreana si chiama Yodok, uno dei più grandi campi di lavoro e “rieducazione”. Oltre al lavoro duro, che inizia alle 5 e mezza del mattino e finisce alle 20, ci sono le sessioni di rieducazione politica, la fame nera, gli abusi delle guardie, le sessioni di critica e autocritica, dove i prigionieri sono spinti ad accusarsi a vicenda. Per qualsiasi trasgressione, per non parlare di un tentativo di fuga, c’è la pena di morte, eseguita in pubblico. I più sfortunati spariscono nei laboratori, usati come cavie umane per esperimenti di armi chimiche e batteriologiche. Le foto satellitari che hanno allarmato l’Onu questo mese dimostrano come l’arcipelago gulag si sia espanso. Certi campi si sono ingranditi fino ad includere i villaggi vicini. Il culto del nuovo leader, evidentemente, chiede ancora più sangue.
Perché l’Onu si sveglia solo in questi anni e un’inchiesta ufficiale del Consiglio dei Diritti Umani parte solo adesso? La tensione internazionale, causata dai test nucleari nordcoreani, ha certamente ridestato l’attenzione. Ma una risposta può avere anche dalla composizione stessa del Consiglio dei Diritti Umani. La Cina, con il suo arcipelago dei Laogai (i gulag di Pechino) e 8 milioni di internati (secondo le stime della Laogai Research Foundation) faceva parte del Consiglio fino alla fine del 2012. Assieme a Cuba, membro eletto fino al 2012, che ha avuto il suo arcipelago gulag (Umap) negli anni ’60 e tuttora incarcera i dissidenti politici. Il Consiglio dei Diritti Umani non ha mai discriminato chi, i diritti, non li ha mai voluti rispettare. Dal 2010 al 2012, con rara combinazione, sono state elette tre democrazie liberali, quali la Corea del Sud, il Giappone e gli Stati Uniti, interessate al caso nordcoreano. Altrimenti nessun giudice totalitario avrebbe indagato sui suoi stessi reati.