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MEDIO ORIENTE

L'Arabia Saudita prepara la vendetta contro gli Usa

"Siamo sempre amici" dicono Kerry e il principe Faisal dell'Arabia Saudita. Ma dietro ai sorrisi c'è un'ostilità crescente causata della crisi siriana. I sauditi possono mettere in atto sette differenti e letali piani di rappresaglia.

Esteri 05_11_2013
John Kerry in Arabia Saudita

«Gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita si sono promessi vicendevolmente che continueranno a lavorare insieme come due nazioni amiche». Sa molto di diplomatichese il resoconto del faccia a faccia avvenuto ieri a Riyadh tra il segretario di Stato americano John Kerry e il ministro degli esteri saudita, il principe Saud al-Faisal. Mai come in queste ultime settimane - infatti - l’Arabia Saudita si è trovata ai ferri corti con gli Stati Uniti: lo storico alleato che da più di settant’anni con il suo petrolio è un punto di riferimento imprescindibile per Washington nella regione, ha mostrato evidenti segnali di impazienza.

Succede anche questo nel Medio Oriente di oggi, immerso nel caos del dopo primavere arabe, che sta rimescolando tutte le carte. A Riyadh non è infatti andato per niente giù il dietrofront di Barack Obama sull’intervento militare in Siria. Puntava infatti su questa spallata per far pendere definitivamente la bilancia dalla sua parte nella grande partita che - sulle spoglie di Damasco - si sta giocando in Medio Oriente. Da due anni ormai l’Arabia Saudita sta combattendo la sua guerra a distanza con l’Iran attraverso le milizie che finanzia in Siria per rovesciare Assad, l’alleato di ferro di Teheran. Adesso - però - (dopo due anni in cui tra indifferenza e insipienza aveva lasciato fare) Washington sta cominciando a rompere qualche uovo nel paniere: non solo niente missili su Damasco, ma ora ci sono anche i segnali di fumo con il nuovo presidente iraniano Rouhani. Con sul tavolo anche l’ipotesi di una conferenza di pace sulla Siria che non potrebbe certo avere l’esito sperato dagli al Saud: la capitolazione dell’Iran degli ayatollah di fronte al dominio regionale dell’islam sunnita wahhabita.

Visto il quadro non è difficile immaginare chi oggi veda come il fumo negli occhi la stessa ipotesi di Ginevra 2, il tavolo negoziale tra le parti in conflitto in Siria che Washington e Mosca vorrebbero tenere entro la fine del mese. Tavolo al quale - nonostante tutte le pressioni delle diplomazie occidentali - un giorno sì e l’altro pure le milizie islamiste intimano al Consiglio nazionale siriano (il volto più presentabile dell’opposizione ad Assad) di non partecipare. Non è difficile intuire che la missione di Kerry a Riyadh servisse a parlare soprattutto di questo; è evidente - infatti - che senza una qualche forma di avallo saudita Ginevra 2 è semplicemente una pia illusione.

Ma il problema vero è evidentemente più ampio. Appare chiaro che gli interessi di Washington e quelli di Riyadh oggi tendono sempre più a divergere in Medio Oriente: in Bahrein, ad esempio, Washington predica moderazione nella repressione degli sciiti, ma poi deve fare comunque i conti con il fatto che lì c’è di stanza la Quinta Flotta. In Iraq gli Stati Uniti in teoria sono alleati di quel Nuri al-Maliki che quasi ogni giorno conta i morti delle autobombe sunnite. Il vero capolavoro, poi, è l’Egitto dove i sauditi sono stati i primi a sfilarsi dai Fratelli musulmani per schierarsi con i generali, mentre Washington - al contrario - è estremamente tiepida con il «nuovo corso» (per la disperazione dei copti).

La domanda vera, però, diventa: dopo settant’anni in cui hanno lasciato loro sostanzialmente mano libera, gli Stati Uniti oggi sono davvero ancora in grado di dire ai sauditi che cosa devono fare in Medio Oriente? La domanda se l’è posta ieri in maniera interessante sul sito della rivista Foreign Policy Shimon Henderson, un’analista del prestigioso Washington Institute for Near East Policy. Che ha buttato lì sette scenari da incubo per il Dipartimento di Stato e il Pentagono nel caso davvero i rapporti con Riyadh dovessero degenerare.

Il primo è ovviamente la leva petrolifera: basterebbe che l’Arabia Saudita tagliasse la produzione per creare gravi contraccolpi nell’economia globale. Ma il punto è che secondo Henderson di possibili ritorsioni saudite ce ne sono anche altre sei: rivolgersi al Pakistan per ottenere missili nucleari (non è un mistero che Riyadh sia stata lo sponsor della bomba di Islamabad); buttare fuori la Quinta Flotta dal Bahrein; fornire nuove armi molto più pericolose ai ribelli siriani; sostenere una nuova intifada nei Territori palestinesi; mettere il cappello a suon di petrodollari sull’Egitto dei generali (spegnendo così definitivamente ogni velleità di libertà e democrazia); sponsorizzare all’Onu l’idea di un seggio islamico in Consiglio di sicurezza (che gli Stati Uniti stopperebbero sicuramente, alimentando però ulteriormente l’odio antiamericano).

«Continueranno a lavorare insieme come due nazioni amiche», hanno detto ieri Kerry e Faisal. Dal momento che la politica internazionale è un po’ diversa da «Alice nel Paese delle meraviglie» sarà interessante vedere quali nuovi compromessi questa rinnovata collaborazione comporta. Personalmente ho l’impressione che il primo - terribile - sia il fatto che una soluzione negoziale sulla Siria la aspetteremo ancora per parecchio tempo.