Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Santa Cecilia a cura di Ermes Dovico

POLEMICHE

L'anti-catechismo di Enzo Bianchi

Con una meditazione sull'Avvento, ancora una volta il priore di Bose dalle colonne di Avvenire interpreta la Scrittura in modo opposto a quanto creduto dalla Chiesa, con la figura di Cristo che perde il suo tratto divino. Bianchi usa il "biblicismo", che Giovanni Paolo II deprecava nella Fides et Ratio.
DOSSIER: Il caso Enzo Bianchi continua

Ecclesia 22_12_2012
Enzo Bianchi

Ci eravamo lasciati in aprile con una polemica a proposito di una meditazione che Enzo Bianchi, priore della Comunità di Bose, aveva pubblicato su Avvenire con una esposizione che contrastava con il Magistero della Chiesa cattolica (chi vuole riprendere gli argomenti di quella polemica può cliccare qui). Ora siamo in un altro “tempo forte”, l’Avvento, e di nuovo Bianchi - sempre dalle colonne di Avvenire - ha modo di propinare ai fedeli cattolici il suo anti-catechismo.

Il 16 dicembre si è messo a pontificare sul giudizio di Dio, e anche in questo contesto torna a riferirsi  a Cristo, nostro Signore, in un modo che certamente urta chiunque viva la fede cattolica e abbia pertanto un sentimento di vera adorazione nei confronti del Verbo Incarnato. A un certo punto Bianchi, riferendosi al giudizio universale, scrive: «Gesù confessa la sua ignoranza relativa all’ora precisa del giorno del giudizio: “Quanto a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli del cielo né il Figlio, ma solo il Padre” [Mc 13,32]. Se Gesù non conosce l’ora, annuncia però il criterio del giudizio: il concreto amore fraterno». Ora, parlare di Gesù come di uno che «confessa la sua ignoranza» suona a bestemmia, almeno per chi ama Gesù come il Verbo eterno, consustanziale al Padre, che tutto sa e tutto può. Solo chi è ormai assuefatto al modo di parlare di Bianchi, che si riferisce sempre solo all’umanità di Cristo (lasciando intendere che Egli è un semplice uomo: un uomo esemplare, di grande spiritualità, tanto da poter essere chiamato “Figlio di Dio”, ma pur sempre un uomo) resta indifferente di fronte a questo discorso.

Bianchi può continuare a parlare così perché sa di poter contare, da una parte, sull’appoggio di molti opinion makers laici ed ecclesiastici, e dall’altra sull’ignoranza religiosa del pubblico cui si rivolge. La gran massa dei fedeli cattolici, infatti, soffre di una specie di analfabetismo di ritorno in materia di dottrina cattolica, e questa ignoranza è il vero dramma religioso che ci interpella tutti. Il relativismo dottrinale ha pervaso a tal punto la coscienza di tanti fedeli – quelli che non hanno avuto mai una adeguata catechesi circa il dogma trinitario e cristologico – che ormai non reagiscono più nemmeno di fronte a discorsi che sono oggettivamente blasfemi. E infatti la maggior parte dei fedeli non avverte alcun disagio nel leggere considerazioni spirituali o teologiche che riducono l’Emanuele, il “Dio-con-noi”, il Santo che nasce dalla Vergine Maria e riceve l’adorazione dei pastori e dei Maghi, a un santone laico o a “uno dei profeti”.

Ma chi ha sensibilità pastorale deve ragionare così: proprio perché c’è una carenza sempre più estesa di formazione catechistica nel popolo, è responsabilità degli operatori della pastorale far sì che gli strumenti della catechesi sappiano fornire argomenti di riflessione che mettano in luce, e non in ombra, il dogma centrale della nostra fede. Se non si predica che Gesù è Dio, come si può sperare che ci sia culto eucaristico? Come si può sperare che i “lontani” ritornino alle pratiche religiose, che sono tutte incentrate sull’adorazione di Cristo, vero Dio e vero Uomo, presente nell’Eucaristia «in corpo, sangue, anima e divinità»? Come si può attuare il programma pastorale del Vaticano II, che chiede di fare dell’Eucaristia «il centro e la radice di tutta la vita cristiana»?

L’artificio retorico cui ricorre Bianchi è quello tipico del “biblicismo”, che Giovanni Paolo II deprecava nell’enciclica Fides et ratio.  Esso consiste nel citare solo alcuni passi della Scrittura, selezionandoli e  interpretandoli con un’ermeneutica arbitraria, cioè per dare una parvenza di giustificazione alle proprie tesi di natura ideologica. Da secoli l’esegesi cattolica ha chiarito il senso di quella pericope evangelica nella quale Gesù parla ai discepoli del giorno del giudizio finale. La Scrittura non dice assolutamente che Cristo sia “ignorante” riguardo ai decreti eterni del Padre: dice solo che la rivelazione dei misteri del Padre da parte del Figlio è limitata, per divina disposizione, ad alcuni determinati contenuti, ossia che la missione di Cristo, rivelatore del Padre, ha dei limiti precisi nell’oggetto, nei modi e nei tempi. Chi adopera il metodo esegetico corretto (che esige il ricorso costante all’analogia della fede) ha presenti i passi del Nuovo Testamento nei quali ci è chiaramente rivelata l’onniscienza di Gesù.

In effetti, in Gesù non c’è una persona umana e una persona divina: c’è una sola Persona, ed è la Persona del Verbo eterno, consustanziale al Padre e allo Spirito santo. Per questo Gesù dice di sé: «Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio voglia rivelarlo». Questo Figlio, secondo il Vangelo di Giovanni (Gv 1, 1-8), è il Verbo, che «è presso Dio ed è Dio». Certamente Gesù, Dio fatto uomo, ha una conoscenza umana limitata, fatta anche di esperienza e di acquisizione di nuovi saperi: ma in Lui questa conoscenza umana è unita ipostaticamente a quella visione immediata di ogni cosa che compete all’onniscienza divina. Tutti ricordano l’espressione di Pietro, dopo la Resurrezione, quando si rivolge a Gesù e gli dice «Signore, tu sai tutto!». Prima ancora, Tommaso apostolo rivolge al Risorto questa esplicita professione di fede nella sua divinità: «Tu sei il mio Signore, tu sei il mio Dio!». La Tradizione non ha mai tralasciato di porre l’accento sulla divinità di Cristo. Si pensi, ad esempio, a come parla dei Novissimi (il tema di cui si è voluto occupare Bianchi in un altro articolo su Avvenire del 6 dicembre) san  Giovanni Crisostomo: «Quando Tu, vita immortale, discendesti incontro alla morte, allora annientasti l’Inferno con il fulgore della tua divinità; poi però, quando resuscitasti i morti dai luoghi sotterranei, tutte le potenze che sono sopra il cielo esclamarono: “Gloria a te, o Cristo, Dio nostro, che dai la vita!”».

Non è comunque solo il dogma cristologico a essere ignorato da Bianchi con il ricorso ad arbitrarie interpretazioni della Scrittura. Anche il tema della giustizia divina e del castigo delle colpe è maltrattato nello scritto del 16 dicembre su Avvenire. Con una sicumera che non si sa su che cosa possa essere fondata, Bianchi afferma perentoriamente che «Dio non ci castiga mentre siamo in vita». Subito dopo, per giustificare in qualche modo questa sua tesi teologicamente ingiustificabile, scrive: «In questo caso [nell’ipotesi, cioè, che Dio ci castigasse mentre siamo in vita, ndr] saremmo “costretti” ad agire secondo il suo volere, senza la libertà che appartiene alla nostra dignità umana». Si tratta certamente di considerazioni antropologiche prive di qualsiasi coerenza logica, perché l’ipotesi che Dio ci castighi mentre siamo in vita non comporta affatto la perdita della nostra libertà, che certamente è la condizione per praticare l’amore e avere meritare il perdono in questa vita e infine la salvezza eterna. Nella teologia cattolica il concetto di “castigo divino” è visto in rapporto alla colpa dell’uomo, e quindi presuppone nell’uomo l’esercizio del libero arbitrio, con la conseguente responsabilità personale, sia prima che dopo il castigo stesso; per questo la teologia morale ha creato la figura morale della “recidività”, ossia l’ipotesi di una colpa liberamente ripetuta anche dopo un’eventuale ammonizione e un’eventuale castigo, persino dopo un eventuale pentimento.

Ma preme qui rilevare soprattutto come Bianchi manipoli la Scrittura. Egli commenta e interpreta un passo biblico facendo finta di ignorare tutti quegli altri passi, sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, dai quali si evince che Dio, nella sua sapienza e giustizia infinita, infligge talvolta ai peccatori un castigo, già nella vita presente, in vista del loro ravvedimento. Ma chi conosce la Scrittura non ignora invece che nell’Antico Testamento c’è il racconto del  diluvio universale, della distruzione di Sodoma e Gomorra, delle piaghe che Dio infligge agli Egiziani, delle vicissitudini degli Ebrei nei quarant’anni dell’Esodo (ed è significativo che Dio punisca molte volte il suo stesso popolo per le sue ripetute infedeltà, e alla fine anche Mosè, l’«amico di Dio», è castigato e impedito di entrare nella Terra promessa). Così come non ignora, per quanto riguarda il Nuovo Testamento, che san Luca narra negli Atti degli Apostoli l’episodio drammatico di Anania e Saffira, e che san Paolo e l’autore della Lettera agli Ebrei parlano dei mali temporali che devono essere interpretati come castighi che Dio infligge per indurre i peccatori alla penitenza.  Le considerazioni astratte che si fanno per negare questa verità di fede  sono basate su fantasiose teorie pseudo-teologiche, di cui ho trattato già in passato e che sarebbe lungo ripetere in questa sede.

Resta il rammarico di constatare come l’autore di questo anti-catechismo non solo goda di ampia popolarità fra molti vescovi, ma addirittura trovi modo di propagarlo sistematicamente attraverso il quotidiano ufficiale della Cei che, da parte sua, tratta tesi molto opinabili (per non dire altro) da “verità sacrosante” al punto da escludere qualsiasi altro punto di vista, invitando a “vergognarsi” chiunque ci provi.