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IDEOLOGIE MODERNE

L’animalismo che avanza: i capodogli di Carl Safina

Il nuovo libro di Carl Safina, “Animali non umani”, nega la differenza tra uomo e animali. E a tal fine usa diversi termini indifferentemente (e strumentalmente) per gli animali e per l’uomo.

Dottrina sociale 15_02_2024

Animalismo e antispecismo vanno insieme: negano la differenza tra uomo e animali. Lo fa anche il nuovo libro di Carl Safina dal titolo “Animali non umani” (Adelphi, Milano 2023), come dire che tutti siamo animali, poi ci sono quelli umani e quelli non umani. È quanto si legge anche all’interno: «I cetacei sono capaci di apprendimento, ma non possono imparare il francese. Gli esseri umani possono cantare, ma non come una megattera» (p. 82): ogni tipo di animale sa fare qualcosa e non sa fare qualcos’altro, quindi sono tutti sullo stesso piano.

Il sottotitolo del libro dice così: “Famiglia, bellezza e pace nelle culture animali”. I termini qui usati valgono di solito per l’uomo. La famiglia umana è più che una cosa naturale, la contemplazione della bellezza era propria perfino dell’uomo delle caverne ma non è mai appartenuta agli animali, la pace va riferita ad un ordine interiorizzato nell’anima, della cultura è capace solo l’essere umano perché comporta il trascendimento dei meccanismi naturali tramite l’intelligenza. Safina, invece, adopera queste, e altre parole che vedremo, indifferentemente per gli animali e per l’uomo. Non c’è scritto in questo libro che gli animali e gli uomini si equivalgono, ma lo si fa capire adoperando le stesse parole per gli uni e per gli altri.

Soffermandoci qui solo sulla prima parte del libro, dedicata ai capodogli, leggiamo per esempio che quanto alla cura per la famiglia, la vita dei capodogli «procede parallela alla nostra» (p. 45) anzi: «la più grande lezione sulla vita da capodoglio è che la cosa più importante è la sua famiglia» (45). A proposito dei capodogli il libro parla di “stili di vita”, di “diversità culturale” di “separazione” culturale che non è da ritenersi un «fenomeno solo umano» (50). I capodogli hanno anche un “apprendimento sociale” (61) e quindi non solo l’uomo è un animale sociale. Essi hanno una cultura: «Una definizione che limiti la cultura agli esseri umani non ha nulla da offrire», «si vedono notevoli somiglianze tra la cultura degli esseri umani e quella di altri animali» (64). A proposito della loro comunicazione si parla di “canti”, di “voci” (51), di uso di rime nei loro canti (70), di un “piccolo vocabolario” e di una sintassi (74) e di un vero e proprio linguaggio simbolico: «Affinché un simbolo funzioni, occorre avere un concetto di quello che il simbolo rappresenta» (52) per cui i capodogli avrebbero anche una capacità di astrazione concettuale e i loro richiami sarebbero «essenzialmente parole».

L’uso indistinto delle parole per animali e uomini raggiunge il suo vertice con i termini “olocausto” e “diaspora”, solitamente adoperate per il popolo ebraico. Qui esse vengono adoperate per le balene bianche che nelle lagune messicane avrebbero subito nell’Ottocento il loro “olocausto” e alcune di esse si sarebbero poi rifugiate nelle Hawaii come a seguito di una “diaspora” (68).

Anche la parola “educazione” viene attribuita ai capodogli, mentre finora era usato ad appannaggio esclusivo dell’uomo. Gli animali sono in grado di imparare e l’apprendimento è trasmesso socialmente (83). La cosa viene spiegata in preciso ossequio alla più scolastica e pedissequa delle formulazioni dell’evoluzionismo (84 ss). Infine, anche l’espressione “identità individuale”, che potremmo tradurre con la parola auto-coscienza, sarebbe propria dei capodogli. Essi sarebbero in grado di dirsi: “questo sono io” (90).

Stefano Fontana