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La devozione

L’amore per l’Eucaristia in san Giuseppe da Copertino

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Il santo dei voli nutriva una grande devozione per il Santissimo Sacramento, che in dialetto chiamava «lo Pecoriello», l’Agnello. Tra le sue visioni, anche quella dell’Ultima Cena, con l’istituzione dell’Eucaristia.

Ecclesia 18_09_2024

«Col mistero del Santissimo Sacramento, Dio ci ha donato tutti i tesori della divina onnipotenza e ci ha fatto palese l’eccesso del suo divino amore». Con queste parole san Giuseppe Maria Desa da Copertino (1603-1663) esprime tutta la sua devozione all’Eucarestia, che definisce come «una delle maggiori consolazioni che poteva avere in questo mondo».

Con voce dialettale egli chiama il Santissimo Sacramento «lo Pecoriello», l’Agnello. «Mentre si facevano l’orazioni delle 40 ore egli, mirando verso la Sacra Ostia, vidde come in un sole Gesù Cristo in forma di Bambino che gettava raggi come se fosse dentro una nuvola. Et essendo uscito da quel luogo, egli per quella veduta restò senza lume e diceva alli suoi: “Tenetemi, perché io ho perduto la vista!”. E così restò senza vedere per lo spazio di due ore», racconta l’abate Rosmi, suo amico fraterno che si premura di appuntare quanto vede e ascolta vivendo accanto al sant’uomo. Lo stesso Rosmi riporta che «similmente più volte Giuseppe vede l’Ostia Sacra come una veste dove sta poi dentro ricoperto il Signore nostro», e ancora, relativamente al momento della consacrazione, che il frate pugliese «nell’alzare l’Ostia Sacra si sentiva anche egli tirare, l’anima sua vedeva Gesù Cristo resuscitato».

San Giuseppe da Copertino ha numerose visioni eucaristiche. Con gli occhi dello spirito contempla l’Ultima Cena e l’istituzione del Santissimo Sacramento: «Vide che giunti poi in Gerusalemme s’ordinò la cena et ad un’ora di notte si cominciò. Gesù Cristo pigliò l’acqua e la pose nel catino e andò per primo a lavare li piedi di Giuda. Di poi andò verso Pietro. Di poi istituì il Santissimo Sacramento alle quattro ore e questo fu il punto principale di tutte le operazioni di Gesù Cristo Signor Nostro per lasciare il mistero della fede nel mondo».

Rosmi racconta in particolare di un’estasi vissuta dal santo dei voli mentre è intento a spezzare il pane eucaristico durante la Santa Messa: «Quando fu al memento dei vivi incominciò a tremare e si appoggiò sopra l’altare con le braccia per buon pezzo fregandosi gli occhi e la faccia, donde si vedeva che cercava di levarsi dal pericolo dell’estasi e, perché si sentiva sollevare, fece gran stento la Levazione. Di poi giunto alla cerimonia di rompere l’Ostia non pareva che la potesse rompere, perché la voltava un poco da una parte et un poco da un’altra, e di poi spezzata e posta l’ultima parte dentro il calice, diede uno strillo e restò così in estasi con gli occhi verso il Santissimo Sacramento, come se fosse una statua. E questo avvenne perché l’anima di lui vedeva come la Divinità del Verbo si univa alli sangui purissimi della Beata Vergine, e mi disse che quell’Ostia sacra gli pareva fosse di ferro tanto appariva dura e difficile da rompersi, e mi soggiunse che egli si fosse sentito qualche scrupolo nell’anima sua di qualche peccato, benché minimo, averia creduto fosse da quello proceduto la difficoltà di rompersi di detta Sacra Ostia».

Meditando e predicando intorno ai divini misteri, l’umile frate osserva che «invece di quel cibo vietato nel terrestre paradiso che dava la morte, Cristo ha istituito questo cibo sacramentato dell’altare al quale egli stesso invita tutti e dà poi la vita della grazia, sì come dice: “Questo è il Pane disceso dal Cielo”, affinché chiunque crede in Lui non muoia ma abbia la vita eterna, della quale è figura e pegno. Gesù Cristo quando stava sulla terra era veduto faccia a faccia et allora non v’era così gran merito a chi in lui credeva e lo vedeva e lo sentiva parlare, ma ora v’è un merito singolare mentre non si vede e si crede che stia, come sta, in questo mirabilissimo Sacramento dove la Maestà Sua non parla faccia a faccia, ma core a core, spirito a spirito, e questo è il gusto d’un’anima divota».

Frate Giuseppe ha anche il carisma della profezia per cui, «quando comunica delle persone, gli fa Dio vedere di quelle ch’hanno più volte offesa Sua Divina Maestà e che anche l’hanno da offendere per il tempo da venire, ed egli si affligge grandemente per questo fatto et ammira l’infinita bontà del Signore nostro che non resta d’andare nella bocca di chi offeso e l’ha da offendere». Allo stesso modo «quando uno senza devozione si comunica, Gesù Cristo entra nella bocca di quello, ma poi subito se ne ritorna in cielo, ma quando uno lo riceve devotamente subito se ne va nel core di quello».

Di qui il patrono degli esaminandi e degli aviatori suole ribadire che, dopo la Santa Comunione, occorre «lasciare il mondo, continuare l’orazione et accomodare la grotticella del nostro cuore et offerire a Gesù Cristo l’intelletto, la memoria e la volontà, ché vedrai e goderai con la bocca e con il cuore nel Santissimo Sacramento dell’altare e, quando la Maestà Sua entrerà nel tuo cuore, tu dirai: “Signore, ecco la mia volontà, deh chiamala!”, et anco tutti li miei sensi avanti a te, Signore. Caccia via la superbia, la vanagloria e tutti li miei appetiti sensuali perché dove sei tu, Signor mio, non ci ponno abitare i tuoi nemici, mentre che io da me stesso, senza l’aiuto tuo, non li posso discacciare. Amen».

Innamorato dell’Eucarestia, frate Giuseppe compone anche una canzoncina spirituale a lode e onore del Santissimo Sacramento, il cui testo recita: «Hostia in cui si contiene ogni contento, Sacramento che appaghi ogni desio, Pane celeste, unico alimento, unico bene de lo core mio. Ti benedico mille volte, e cento, e lodo il nome tuo unico, e pio. Lodato sia il Santo Sacramento e sempre viva la Madre di Dio».

In forza della sua chiara fama di santità viene frequentemente trasferito da un convento all’altro e perseguito persino dall’Inquisizione, seppur senza conseguenze. Nel tempo della prova egli si abbandona fiducioso alla volontà del Padre, certo della compagnia del suo Signore nel sacramento dell’Amore: «Io voglio in tutto essere rassegnato sempre alla volontà del Signore e alla santa obbedienza, né voglio curarmi di cosa alcuna; se vorranno che io dico Messa in pubblico, la dirò, se non vorranno, la dirò in un luogo privato, e sarà ciò che tanto desidero, così senza disturbo mi godrò il mio Dio, che sa con quanta istanza di questo io abbia pregato più volte; se poi non vorranno che io la dica in modo alcuno, non la dirò, ma non credo che perciò mi negheranno di ricevere il mio Signore ogni giorno, e questo basterà per farmi stare contentissimo».