L'America, il razzismo e la profezia Ratzinger
Negli Stati Uniti lo scontro razziale è allo zenit. Dopo i morti ammazzati dai poliziotti, dopo le ritorsioni di Dallas e di Baton Rouge, è questo ciò che tutti vogliono credere. Il razzismo mette il cuore in pace perché è il libro delle soluzioni. Ma il nemico non è, infatti, il razzismo. È l’abisso antropologico in cui è sprofondata la società.
Negli Stati Uniti lo scontro razziale è allo zenit. Dopo i morti ammazzati dai poliziotti, dopo le ritorsioni di Dallas e di Baton Rouge, è questo ciò che tutti vogliono credere perché questo è facile da credere per tutti, e a suo modo tragicamente consolante. Il razzismo mette il cuore in pace perché è il libro delle soluzioni. Inchioda il colpevole, sbatte il mostro in prima pagina, assolve gli altri.
L’Italia l’ha sperimentato quando la patente dell’antifascismo faceva di ogni giornata la notte in cui tutte le vacche sono nere, mescolando nell’indistinto buoni e cattivi allo scopo di assolvere le nefandezze dei secondi. La versione americana di questo cortocircuito dice oggi che i neri sono tutti buoni solo perché neri e i poliziotti tutti cattivi proprio perché poliziotti. Una bugia mortale. I neri americani non sono tutti buoni come non lo sono tutti i bianchi, i latinos, i meticci, gli ebrei, gl’indiani e chi più ne ha più ne metta. Neanche i poliziotti americani sono tutti buoni.
Ma da un principio bisogna iniziare, e questo non può che essere la presunzione d’innocenza del prossimo, caso antropologicamente specifico dell’atteggiamento umano di base: dare fiducia alla realtà. Se non dessimo fiducia al semaforo che regola il traffico, all’ascensore che ci porta al settimo piano, alla sedia su cui ci accomodiamo per lavorare, all’impianto elettrico cui attacchiamo il computer e le nostre vite, vivremmo un incubo continuo di ansie, paure e superstizioni. Ogni cittadino è dunque innocente fino a prova contraria, che, nell’eventualità, è onore dell’accusa. Lo sono gli americani qualunque sia il colore della loro pelle, e i cittadini di ogni altro Paese qualsiasi colore abbiano.
Anche i poliziotti sono innocenti fino a prova contraria sia perché cittadini come tutti gli altri, sia come tutori del bene comune: «[…] salus populi suprema lex esto», “la salvezza del popolo dev’essere la legge suprema”, diceva Cicerone (De legibus, III, III, VIII), frase divenuta il motto ufficiale dello Stato del Missouri. Un poliziotto, cioè, interviene per difendere il bene superiore della comunità quando un cittadino delinque. Può sbagliare, e ogni errore è sempre tragico, dannato, infernale; ma possiamo vivere prescindendo da questo assunto base? Anche le statistiche aiutano a rispondere.
Il quotidiano The Washington Post, il più diffuso e antico giornale statunitense, autorevolissimo e liberal, ha creato un database dei cittadini uccisi dalla polizia dal 1° gennaio 2015. L’anno scorso sono stati 990 (clicca qui) (948 uomini): 730 colpiti in flagranza di aggressione, crimine, delitto; 782 armati; 54 alla guida di veicoli che non si sono fermati all’alt (e dopo Nizza sappiamo bene cosa può significare). Impossibile definirli innocenti. 34 erano in possesso di armi giocattolo, ma stavano comunque commettendo illeciti: si può accusare un poliziotto per non avere distinto in un secondo e a distanza una pistola vera da una fasulla? I disarmati erano (solo) 93 (altri 27 “non si sa”): si può accusare un poliziotto che per errore spara a qualcuno, rivelatosi solo dopo disarmato, in uno scenario pericoloso e concitato quando 782 su 990 cittadini colpiti sono criminali armati, 34 fingono credibilmente di esserlo, 54 in grado di usare veicoli come armi? Quando 730 di quei 990 sono stati fermati in flagranza di violenza armata?
Si può e si deve: ma le cifre sono incommensurabili, e le più stridenti riguardano il colore della pelle. Di quei 990 i neri sono infatti 258, i latinos 172 e i bianchi 494 (38 gli altri, 28 i non pervenuti). Nel 2016 (clicca qui) il dato non cambia. I 522 uccisi dalla polizia a tutt’oggi (497 maschi) annoverano 289 criminali con armi da fuoco a cui vanno aggiunti (per il 2015 i dati non erano scorporati) 92 dotati di coltello e 20 di armi improprie micidiali (martelli, utensili vari, etc.). Poi ci sono 36 trasgressori alla guida di veicoli senza controllo, 23 rei in possesso di armi giocattolo, 27 non pervenuti e 35 disarmati. Dei 522 colpiti, 129 sono neri, 80 latinos e 242 bianchi (23 altri, 48 “non si sa”). Lo stesso The Washington Post che snocciola questi dati gioca non proprio candidamente di statistica affermando che i morti bianchi sono di più solo perché i bianchi sono in assoluto di più (clicca qui), ma è capzioso, per far tornare i conti a tutti i costi. Se ne cava però un altro dato importante; il numero degli uccisi disarmati nel 2015 è uguale tra bianchi e neri.
Gridare “Black Lives Matter” è allora ipocrita. Tutte le vite contano: neri, latinos, meticci, ebrei, indiani, bianchi, polizotti e bambini non nati. Ma continueranno a non contare, anzi a contare sempre meno se si prenderà il colpevole sbagliato (il database di The Washington Times dice che l’11 luglio il conto dei morti di quest’anno ha superato di 11 unità il medesimo periodo del 2015). Il nemico interno degli Stati Uniti non è, infatti, il razzismo. È l’abisso antropologico in cui sono sprofondati strati interi della società, quartieri interi delle megalopoli, fasce intere della popolazione. È il degrado dell’umano il responsabile delle violenze; non la polizia, non le razze.
È la china lungo cui scivola una parte cospicua di quel mondo a produrre i morti nelle strade, esito tragico, ma annunciato, di una contro-cultura ormai ubiqua. La distruzione sistematica della famiglia, l’odio all’autorità, la contestazione come principio, la tolleranza di ogni male, il culto del nulla e quindi il branco come surrogato della comunità, la banda come sostituto della Chiesa o della scuola: questo, sin dagli anni 1960, è la matrice dello sfascio attuale. Pero ogni razza e colore. I troppi ragazzi cresciuti bradi in pseudo-famiglie numerose orfane per definizione dei padri non sanno che farsene di educazione e ordine, non sanno cosa sia la responsabilità e la libertà. Sopravvivono a se stessi, tirano sera, spippolano un cellulare. Tutto ciò che lo Stato ha saputo fare per loro è stato inventare elefantiaci programmi di assistenzialismo che attraverso un buono-pasto e qualche gettone d’oro hanno convinto tutti che starsene a fare nulla è molto meglio. Iniziò con lo sballo come stile di vita, la contraccezione come liberazione, la rivolta in nome del niente e oggi è solo spleen. Ma la noia genera violenza: perché quando non si capisce più, s’inizia a distruggere.
Il discorso di Ratisbona di Papa Benedetto XVI vale anche per gli slum americani e per gli “dèi” dell’ateismo contemporaneo. Statisticamente, le famiglie numerose sfasciate prima dalla contro-cultura poi dall’assistenzialismo statalistico sono moltissime tra i neri e i latinos, e per questo chi confonde le cause con gli effetti pensa sia un problema razziale. Poi ci hanno creduto anche molti neri e molti latinos, e così prendersi quel che sta a portata di mano è diventato il diritto delle “minoranze” svantaggiate. I quartieri-dormitorio, gli antri dello spaccio e del sesso cheap, le zone off-limits dove chi entra muore, i regni delle bande, la perdita di umanità delle città, il “volere è potere”, il profumo dei soldi degli altri: sono questi i responsabili della criminalità che dilaga senza guardare in faccia a nessuno né al colore della sua pelle.
La polizia fa quel che deve e così capita che a volte faccia anche quel che non deve. È una spirale che trascina in basso. Il male non lo elimineremo mai dall’orizzonte umano, ma se cominciassimo a chiamarlo con il suo nome e a identificarlo per quello che è, smetteremmo di riempirci la bocca di slogan falsi che sono solo benzina sul fuoco. Chi oggi dice “razzismo” altro non fa che buttare la polvere sotto il tappeto. Raccogliamo ora quel che abbiamo seminato dal Sessantotto. I giovani che insanguinano le strade americane, vittime o carnefici, non hanno perso il senso delle cose e il significato della vita: non lo hanno mai imparato perché non c’era nessuno a insegnarlo. Le vite dei neri, e dei poliziotti neri, contano: per questo la scusa della “guerra razziale” serve soltanto a mieterne altre.