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83 ANNI DOPO

L’Alzamiento, un fatto da ricordare. Ecco perché

Il 18 luglio 1936 un gruppo di alti ufficiali dell’esercito, con in testa Francisco Franco, si sollevò contro il governo del Fronte Popolare. Era una Spagna in cui il clima anticristiano si era fatto rovente e Franco non esitò a parlare di «crociata» contro «l’ateismo e il materialismo». Il fronte comunista reagì con il famigerato Terrore rosso, causando centinaia di martiri. Che la cultura dominante non ricorda.

Documenti 18_07_2019

Il 18 luglio di 83 anni fa, un gruppo di alti ufficiali dell’esercito si solleva contro il governo del Fronte Popolare. Figura di spicco fra essi, il generale Francisco Franco, che guiderà l’Alzamiento Nacional - come viene detto - alla vittoria e poi la Spagna per quasi quarant’anni.

Fin da subito, Franco intende il suo gesto d’insorgenza contro il potere istituito come obbligato dall’onore militare e dal senso cattolico, e quindi lo vive come crociata in difesa della Fede: «La nostra non è una guerra civile […] ma una crociata […]. Sì, la nostra è una guerra religiosa. Noi combattenti, non importa se cristiani o mussulmani, siamo soldati di Dio e non ci battiamo contro gli uomini ma contro l’ateismo e il materialismo». Il primo a utilizzare il termine “crociata” è il vescovo di Salamanca (poi primate di Spagna) monsignor Enrique Pla y Deniel: «[…] non si tratta di una guerra per questioni dinastiche, né di forma di governo, ma di una Crociata contro il comunismo, per salvare la religione, la patria e la famiglia». La qualifica di Cruzada, poi, viene ratificata nella Lettera Collettiva dei vescovi di Spagna in sostegno all’Alzamiento dell’1 luglio 1937.

Perché l’Alzamiento? In quella Spagna della II Repubblica, il clima rivoluzionario e anticristiano si era fatto via via più rovente. Il 14 ottobre 1931, Manuel Azaña Diaz, davanti all’Assemblea Costituente, prorompe nel grido «España ha dejado de ser católica!» («La Spagna ha smesso di essere cattolica!»). È evidente il carattere programmatico piuttosto che descrittivo del grido, se riferito alla nazione, al «paese reale». Invece, se riferito alla dimensione istituzionale, esso trova sanzione nella nuova Costituzione: il «paese legale» perfeziona la sua apostasia e rinnega la sua eredità e identità cristiane.

Le elezioni del febbraio 1936, vinte dal Fronte Popolare (non senza serie doglianze di brogli e violenze), vengono intese come una sorta di via libera per la Rivoluzione rossa. Nei pochi mesi che vanno dal febbraio al giugno 1936 si contano, per mano dei rossi, 269 uccisi, 1287 feriti, 251 chiese incendiate o profanate, di cui 160 completamente distrutte. Numerosissimi sono gl’imprigionamenti pretestuosi e illegittimi. Lo storico Gabriele Ranzato, dichiaratamente antifascista e antifranchista, non può che constatare «[…] un avanzato sfacelo dello Stato di diritto», che portava addirittura a non eseguire le sentenze di assoluzione dei militanti di destra, che venivano perciò trattenuti in carcere. Egli è costretto a riconoscere che è «[…] discutibile […] perpetuare l’immagine della Spagna della primavera 1936, come quella di un paese di democrazia liberale accettabilmente funzionante, capace di garantire la continuità del suo sistema […] al riparo di qualsiasi pericolo di sovvertimento rivoluzionario, che sarebbe stato trascinato alla guerra civile solo da una sollevazione militare reazionaria e fascista».

L’insorgenza, nella forma del pronunciamiento militare, è giudicata ormai indifferibile, anzi doverosa. Eppure, la letteratura e l’opinione correnti, persino in area cattolica, mentre sono avversi in modo a dir poco aggressivo a Franco, all’Alzamiento e al regime che ne segue, descrivono invece la Repubblica e le varie sinistre spagnole del tempo come un’accolita di generosi idealisti, innocenti e innocui. Eppure il vero e proprio Terrore rosso nelle città in cui l’Alzamiento non riesce subito è ampiamente documentato e noto persino agli storici dilettanti: «Tra luglio e ottobre 1936 fu la grande repressione, il Terrore rosso»[1]. È l’ora delle checas – da CEKA, sigla della polizia politica, subito modello per tutti i comunisti del mondo, istituita da Lenin il 7 dicembre 1917, con lo specifico compito di reprimere con il terrore preventivo nelle sue prigioni, mediante torture e fucilazioni, ogni possibile opposizione al potere bolscevico. Esse sono «carceri improvvisate, dove alle condizioni subumane nelle quali sopravvivono gl’internati si sommano metodi di tortura difficilmente concepibili»[2].

Nella sola Madrid ne vengono censite 345 (una addirittura nella residenza dei padri Maristi), quattro per chilometro quadrato, oltre 23 prigioni ufficiali e dieci commissariati, dove «portavano i “fascisti”, cioè quelle persone che non erano “sinistri”, e le incarceravano, interrogavano, torturavano e assassinavano»[3].

Tra i mezzi di tortura – finalizzati a ottenere confessioni e scoprire spie, sabotatori, etc. (che sin dal tempo del Terrore giacobino la Rivoluzione cerca per giustificare anzitutto a sé stessa i propri fallimenti, e cioè il mancato avvento del paradiso in terra) –, l’enteroclisma di un litro di cemento liquido. Da queste checas, dove, «nel pieno d’un’asfissiante isteria collettiva […] la tortura raggiunge una raffinatezza dal difficile paragone»[4], ogni giorno, i presos vengono deportati in località fuori città per essere fucilati, ovvero tale sorte viene loro riservata all’alba nei cortili di tali stabilimenti.

Perché allora i rossi, né innocenti né innocui, godono di tanta buona fama? Perché godono d’un pregiudizio favorevole in quanto rivoluzionari che intendono dare un’accelerazione all’orologio della storia. Paradigmatico di ciò è il fatto che la conquista illegale del potere da parte di Lenin, il suo golpe, è una «gloriosa Rivoluzione», là dove Rivoluzione è il bene per sé, e perciò è doverosa; mentre l’insorgenza di Franco in quanto reazione, se non proprio Contro-Rivoluzione, è per sé un crimine. Ma quello dell’«orologio della storia», del di essa preteso senso progressista, è un mito tanto falso – è una forma d’impazzimento pensare che domani sia un luogo in cui si trovi la terra promessa, il millennio di pace giustizia e fraternità, il paradiso in terra –, quanto intriso di sangue innocente, perché per raggiungere questo luogo ogni mezzo diventa giusto, nessun sacrificio è eccessivo e va spazzato via ogni preteso ostacolo.

Perché ricordare questa vicenda, le sue cause e il suo significato, ormai roba passata? In Spagna, come in Messico dieci anni prima, l’odio rivoluzionario e comunista nei confronti di Dio fin da subito si traduce in odio implacabile nei confronti della Chiesa e del cristianesimo, percepiti dal comunismo come la perfetta e vera incarnazione della religione e della religiosità umana, per definizione quel che impedisce l’auto-divinizzazione della creatura, che è invece il suo vero e ultimo scopo e movente. E di ciò testimonianza inconfutabile è fornita dal numero dei martiri - se ci sono martiri, vuol dire che ci sono carnefici che uccidono in odium fidei, il martirio è nella causa, non nella pena - già riconosciuti dalla Chiesa e di quelli prossimi al riconoscimento. Fra gli uni e gli altri, oltre duemila. Il 28 ottobre 2007, ne sono stati beatificati a Roma 498. Allora, la più grande beatificazione di massa della storia. Ma il 13 ottobre 2013 il record viene superato: i martiri beatificati in un’unica soluzione sono 522!

La reazione a questa feroce persecuzione ferma l’avanzata comunista nel XX secolo, ritardandone quando non arrestandone l’espansione. E a noi, che siamo oggi a valle della storia criminale del socialismo reale, appare chiaro che cosa hanno risparmiato al loro popolo e forse all’intera Europa occidentale. Dunque, la resistenza anche armata alla Rivoluzione anti-cristiana, per difendere la fede e la possibilità di viverla integralmente nella libertà, merita d’essere ricordata, sia per motivi di pietas storica, cioè per restituire a quegli uomini troppo spesso vilipesi o dimenticati onore e verità, che per la sua valenza esemplare.

L’assalto al Cielo fu da essi fermato. Però oggi, considerando il volto assunto dalla Spagna, sembra essere stato solo rinviato. Eppure la memoria di quei martiri può tenere accesa la speranza, e non solo quella teologale.

 

[1] Cfr. Madrid era una checa: había cuatro por cada kilómetro cuadrado, La Razón, 31-10-2016, www.larazon.es/cultura/madrid-era-una-checa-habia-cuatro-por-km2-KJ13831478

[2] Álvaro López Fernández y Emilio Peral Vega, Checas de Madrid, o la radiografía macabra de una ciudad bajo el miedo, introduzione a Tomás Borrás (1891-1976), Checas de Madrid, Edición crítica a cura di Idem, Escolar y Mayo Editores, Madrid 2018 (1939), p. 16

[3] Madrid era una checa, cit., dove si legge che «La Direzione Generale di Sicurezza del governo repubblicano lasciò la purga nelle mani dei partiti e dei sindacati del Fronte Popolare», quindi non addebitabile a incontrolados

[4] Checas de Madrid, cit.