L’altare è il cuore della fede
Nel cristianesimo il sacrificio
non si compiace della distruzione,
ma annuncia la vita vera, compimento di sé nella risposta all’amore di Dio.
La natura non fa vino. Fa aceto. Solo il lavoro dell’uomo è capace di sospendere il tempo dell’uva quando schiuma e trattenerlo nel vino, breve anticipo di eterno che allieta il cuore. La natura, da sola, non fa il pane. È il lavoro dell’uomo che raccoglie il frumento, ne trae il pane vigoroso e, spezzandolo, lo ritrova in molti giorni, lungo il tempo delle generazioni. La natura attende l’opera dell’uomo. E l’opera dell’uomo cerca di trattenere il tempo. Ma per quanto insista non riesce. La creazione è sottomessa alla caducità (Rm 20,8).
Ogni uomo ha nel cuore la nozione dell’eternità, ma non la capacità di abbracciarne l’inizio e la fine (Qo 1,11). Questa verità appare persino frustrante. C’è infatti chi ne deduce che tutto si risolva nel giro immutabile degli anni e delle stagioni. Come un eterno ritorno, come una giostra che torna sempre allo stesso punto, senza alcuna novità da attendere.
C’è invece chi risponde che cercare di inseguire l’eterno e di stringere l’infinito, è sicuramente sforzo vano. A meno che non sia l’eterno ad abbreviarsi e non sia l’infinito ad abbassarsi. A meno che non si lasci spazio all’azione di Dio.
Ed è quello che avviene sull’altare, alla consacrazione del pane e del vino: la solenne preghiera eucaristica, che pronuncia le parole di Cristo «questo è il mio corpo», «questo è il mio sangue», «è la vera azione di cui tutta la creazione è in attesa: gli elementi delle terra vengono trans-sustanziati, strappati, per così dire, dal loro ancoraggio creaturale, ricompresi nel fondamento più profondo del loro essere e trasformati nel corpo e nel sangue del Signore. Il nuovo cielo e la nuova terra vengono anticipati» (Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, San Paolo, pag. 168).
L’incommensurabile può essere colmato perché Dio è venuto incontro alla creazione, si è fatto uomo e ha portato in pienezza questa umanità fin dentro il mistero di Dio. Questo è il destino a cui ogni uomo è chiamato. Di questo deve rendere grazie.
Con l’incarnazione Dio dà l’estrema prova della propria fedeltà all’alleanza con l’uomo. Gesù rivela che la verità di Dio non è dominio, possesso, sospetto, ma comunione. Offre ciò che giova, la vita conforme all’origine, la vita dove l’uomo conversava con Dio, custodiva il giardino e collaborava alla creazione. Gesù chiama alla libertà di una relazione con Dio. Mostra una dedizione incondizionata per la vita dell’uomo. Testimonia, nell’obbedienza al Padre, l’amore di Dio per la vita dell’uomo. Amore che non recede neanche di fronte alla morte.
Ecco allora perché il pane e il vino diventano corpo e sangue di Cristo. La cena del Signore, segno di comunione, diventa comprensibile solo alla luce della croce. La mensa contraddistinta dalla tovaglia distesa è anche altare, luogo del sacrificio. Avvicinarsi all’altare è avvicinarsi al Golgota, Infatti, nel presbiterio, il crocifisso è sempre posto in stretta relazione all’altare.
Nella chiesa di San Vitale a Ravenna [nella foto], ma lo si può vedere anche in molte altre chiese, nella volta sopra l’altare, c’è un mosaico che ritrae un agnello. L’aureola cruciforme ci dice che rappresenta Cristo, l’agnello di Dio. Questa collocazione significa che non servono più, se mai sono serviti, agnelli da sacrificare sugli altari, sostituti che cercavano di colmare lo spazio tra la terra e il cielo. Ora quello spazio non è più vuoto: la ricerca umana di unione con Dio, la ricerca di una comunione nella verità, nella giustizia , nella bellezza, nella gratuità della libertà, è resa possibile dal sacrificio di Cristo. In lui noi stessi veniamo portati fino a Dio.
Cristo è l’offerta eternamente gradita. E nella liturgia chi prega è chiamato a imitare il Figlio e ad offrire se stesso come «sacrificio vivente». Perché il sacrificio non ha a che fare con la distruzione o con qualche vana mortificazione, ma con la vita. È un nuovo modo di essere. Significa riconoscere il proprio compimento nella libera risposta all’amore di Dio. Significa lasciarsi ricreare dalla sequela di Cristo.
Sotto l’altare la tradizione ha spesso posto le reliquie di santi e martiri. Ovvero il corpo di chi ha fatto di sé un «sacrificio vivente», di chi ha testimoniato Cristo a tal punto da diventare come Cristo. Tertulliano giunge a scrivere: «Christus in martyre est», Cristo è nel martire. Fin dalle prime comunità cristiane, il martirio è stato paragonato alla celebrazione eucaristica, perché realizza una contemporaneità con Cristo, l’essere una cosa sola con lui.
Ed ecco perché, qualche secolo più tardi il vescovo Durand, nella sua opera Rationale divinorum officiorum, lontano da ogni tentazione di intimismo, può dire: «L’altare è il nostro cuore».