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MODERNITA'

Laicità “aperta” e Chiesa cattolica: qualcosa non va

Dottrina sociale 13_08_2021

Gira da tempo un concetto di laicità al quale hanno aderito anche molti cattolici, parlo di intellettuali e anche di gente comune, gli uni aderendovi teoreticamente gli altri praticamente. Si tratta della laicità che viene chiamata “inclusiva”, oppure “aperta” o “buona”. Anche Benedetto XVI ne ha parlato in varie occasioni, in qualche modo ammettendone la plausibilità se non proprio la correttezza. Anni fa ci fu un periodo in cui l’espressione “laicità aperta” era molto in voga. Erano i tempi della presidenza francese di Nicolas Sarkozy il quale criticava la legge francese sulla laicità del 1905 proponendo appunto una sua interpretazione “aperta” e non più giacobina. Quella giacobina era una laicità “militante” ossia antireligiosa, quella “aperta” invece avrebbe dovuto essere una laicità che concede spazio di libertà nella pubblica piazza non alla religione, ma alle religioni, riconoscendo in esse un contributo al dibattito politico utile a tutti.

Facendo l’esempio di Sarkozy ci siamo riferiti al campo politico, ma questa visione della laicità è propria anche del campo religioso con particolare riferimento alla Chiesa cattolica, oggi decisamente orientata in questo senso. Per la nuova teologia l’esistenza di più religioni è qualcosa di buono e i cattolici devono educarsi e devono educare alla diversità di religione. La posizione del teologo Jaqques Dupuis, principale esponente della dottrina del pluralismo religioso, è oggi diventata comune nella Chiesa e completamente stabilizzata in essa, nonostante documenti come l’istruzione Dominus Jesus e nonostante le posizioni critiche di Ratzinger e di altri teologi. La pluralità delle religioni è un bene e tutte, teologicamente parlando, contengono spezzoni di rivelazione divina, dato che Dio si rivela nella storia dell’umanità, la quale ha come componente anche la pluralità delle religioni.

La nuova visione teologica cattolica della pluralità delle religioni comporta di conseguenza la tesi della laicità “aperta”. Nessuna religione è talmente “vera” da essere anche “unica” nei rapporti con il potere politico. Ogni pretesa di primogenitura cessa di esistere e alla missione evangelizzatrice si deve sostituire l’educazione alla reciproca convivenza, che sul piano politico vuol dire appunto laicità “aperta”. La cosa risulta anche evidente dal linguaggio. Le istituzioni politiche parlano sempre di “religioni” al plurale. Ma anche molti documenti ufficiali della Chiesa cattolica – anche la stessa Caritas in veritate di Benedetto XVI – parlano di religioni in modo indistinto e non della religione cattolica in modo particolare. Questo accade soprattutto quando si parla di “libertà di religione” che, nel senso richiesto dalla laicità “aperta”, vuol dire l’apertura della pubblica piazza a tutte le religioni.

Questa cosa presenta però il conto e ha delle conseguenze che devono essere attentamente valutate. Dal punto di vista teologico risulta difficile far combaciare il pluralismo religioso con la divinità di Gesù Cristo, dato che possono sì esistere tante religioni ma non tante Divinità: Dio è uno solo. Né può esistere un Dio generico, un vago Architetto dell’universo fondatore di una religione dell’umanità dai contorni indefiniti. Da Saint Simon a Comte tanti fondatori laici di una nuova religione cristiana si erano cimentati in questa impresa che rimane però fallimentare. Allora l’unica via è concepire Cristo come l’evoluzione storica finale del processo dell’umanità, comprensivo anche delle altre religioni, ma un Cristo evolutivo è solo storico ed immanente e non più trascendente. Il vicolo si dimostra cieco.

Dal punto di vista politico, l’ammissione del pluralismo religioso nella pubblica piazza comporta che la politica dichiari che per essa ogni religione vale l’altra. In questo modo però amputa la propria funzione di guida verso il bene comune. Non è infatti possibile che siano uguali due religioni che in ordine al bene comune dicono cose opposte. Per ammettere il pluralismo religioso, la politica deve rinunciare al compito di guidare verso il bene comune, con pesanti ricadute anche morali, perché se non esiste bene comune non esiste nessun bene in politica. La politica pensa di essere laica solo dalla religione ed invece lo diventa anche dalla morale, una politica amorale senza anticorpi contro l’immoralità.