L'agenda tutta politica del senatore Monti
Dal punto di vista economico non ci sono novità clamorose, ma sono da cogliere i riferimenti all'economia sociale di mercato e alla "società aperta", sulla scia del pensiero di Karl Popper. Programma difficile da realizzare.
L’agenda che il senatore a vita e presidente del Consiglio, Mario Monti, ha presentato insieme all’annuncio di un suo diretto impegno politico in vista delle prossime elezioni ha solo in apparenza l’aspetto di un documento di carattere economico: in realtà è soprattutto un modo concreto ed esplicito per marcare una precisa identità nei confronti delle altre forze politiche in campo.
Da una parte per distinguersi nettamente dal ritorno di fiamma del populismo di Berlusconi, sulla scia del fatto che negli ultimi anni il Governo Pdl-Lega ha creato molti più problemi di quanti ne abbia risolti. Dall’altra per aprire il dialogo con il socialismo riformista di Bersani nel tentativo di separarlo dalle posizioni massimaliste e fondamentalmente conservatrici della Cgil e della sinistra vendoliana.
Sul profilo strettamente economico infatti non ci sono grandi e clamorose novità: non ci sono grandi riforme, ma c’è soprattutto una manutenzione dell’esistente secondo i parametri dell’efficienza e dell’economicità. Sembra quasi che Monti abbia preso alla lettera le indicazioni del presidente del Censis e grande interprete della società italiana, Giuseppe De Rita. Nel nostro Paese, aveva sostanzialmente detto, si parla ormai da cinquant’anni di riforme: ma quello che manca veramente è la capacità di rendere le strutture pubbliche sempre più efficienti e sempre più capaci di rispondere alle esigenze del Paese.
Ci sono tuttavia due richiami nel documento che possono essere considerati due importanti chiavi di lettura storico-culturale. Il primo è all’economia sociale di mercato: quell’impostazione politica elaborata nella Germania del dopoguerra in cui si proponeva una forte difesa dell’economia di mercato, fondata sulla libera iniziativa, accompagnata da una prospettiva sociale con un intervento dello Stato in tutte quelle situazioni in cui l’iniziativa privata non riesce o non ritiene conveniente intervenire. Il secondo richiamo è alla “società aperta” sulla scia del pensiero di Karl Popper dove la politica deve affrancarsi dai totalitarismi e dalle ideologie per ritrovare invece la capacità di una continua dialettica e di un coraggioso confronto di opinioni.
Il liberalismo di Popper, nonostante l’impegno di grandi filosofi come Dario Antiseri che hanno tradotto e presentato i suoi libri in Italia, non ha (purtroppo) mai goduto di grande popolarità nella classe politica. Eppure, insieme ai suoi scritti sul liberalismo si rivela ora grandemente profetico uno dei suoi ultimi scritti, all’inizio degli anni ’90, Cattiva maestra televisione, in cui il filosofo punta il dito contro lo strumento principale della manipolazione del consenso e sui suoi pericoli. Perché se non c’è libero accesso ai media e se questi sono in mano a persone senza scrupoli e privi di senso di responsabilità in rapporto all’impiego di tali strumenti, la democrazia è in grave pericolo.
In questa prospettiva se in Italia si avviasse un cammino verso i principi della società aperta e dell’economia sociale di mercato si farebbe veramente un salto di qualità nel modello di convivenza sociale e quindi anche di efficienza economica. Non sarà facile perché bisogna superare gli schemi ideologici, aprire lo spazio al merito e alla capacità, valorizzare l’iniziativa e la responsabilità personale, ridare allo Stato un ruolo sussidiario rispetto alla società, riconoscendo la centralità alle persone: cittadini partecipi e non sudditi sotto il torchio.
Un programma sicuramente ambizioso, quasi temerario di fronte all’attuale classe politica. Un programma che deve anche mirare a difendere lo spazio di quanti, come i cattolici, con la testimonianza e con le opere, vogliono essere protagonisti, certo non esclusivi, della crescita sociale. Ma in questo modo anche la politica potrebbe ritrovare quella dignità che negli ultimi anni hanno contribuito a dissolvere una sinistra pasticciona e velleitaria e (più a lungo) una destra sguaiata e inconcludente.