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CONTINENTE NERO

L'Africa è di nuovo fanalino di coda della prosperità

Il centro studi Legatum Institute pubblica dal 2008 l’Indice mondiale di prosperità. Agli ultimi posti ci sono soprattutto i paesi dell'Africa sub-sahariana. Il risultato non sorprende nessuno, eppure dovrebbe. Perché l'Africa registra un tasso di crescita notevole e sono proprio gli stati più ricchi ad essere meno prosperi. Vediamo perché.

Esteri 06_06_2016
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Il centro studi Legatum Institute pubblica dal 2008 l’Indice mondiale di prosperità, Imp, un elenco di stati – 142 nell’ultima edizione – ordinati in base appunto al livello di benessere raggiunto. Come l’Isu, l’Indice di sviluppo umano redatto anch’esso ogni anno dall’agenzia delle Nazioni Unite per lo sviluppo, l’Imp fornisce un quadro della situazione mondiale, paese per paese, considerando, oltre ai dati economici, indicatori quali istruzione, salute, sicurezza, libertà personali. Non sorprende quindi che le due classifiche, benché compilate con metodi e strumenti di ricerca differenti, abbiano molto in comune. In entrambe, ad esempio, nel 2015 al primo posto si trova la Norvegia e gli stessi otto stati, cinque dei quali europei, compaiono nelle prime dieci posizioni. Un altro elemento che accomuna i due Indici è la concentrazione di paesi africani al fondo di entrambi, un dato costante, fin dalla loro prima edizione: nell’Isu 2015, su 43 stati a basso livello di sviluppo 36 sono africani; nell’Imp 2015, 32 paesi africani figurano tra il 100° e l’ultimo posto. 

Che gli stati africani siano ultimi negli indici di sviluppo e prosperità non sorprende, abituati come siamo al fatto che l’Africa sia il continente più povero, detentore di quasi tutti i primati negativi. Ma invece dovrebbe stupire perché, in termini economici, in realtà l’Africa vanta risultati molto positivi. In particolare, dal 2005 al 2014 il Prodotto interno lordo in Africa sub-sahariana è cresciuto in media del 5,8% all’anno. Tuttavia, proprio negli anni e nei paesi caratterizzati dalle performance più convincenti, la crescita economica non si è tradotta in una migliore qualità di vita, non quanto ci si aspettava e di certo non quanto avrebbe potuto. Di questo, di come decenni di crescita economica non siano riusciti in molti stati africani a tradursi in livelli di prosperità più elevati, tratta il “Rapporto sulla prosperità dell’Africa 2016”, pubblicato il 1° giugno dal Legatum Institute a integrazione dell’Imp 2015. 

La parte del rapporto più utile riguarda la constatazione che in Africa, al contrario di quanto si potrebbe immaginare, sono i paesi più ricchi – Sudan, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Angola, Ciad… – a deludere maggiormente le aspettative di prosperità: in altre parole, a sprecare e dilapidare risorse finanziarie e umane. L’esempio più clamoroso è quello dell’Angola che ha sottratto alla prima economia africana, la Nigeria, il primato di maggior produttore di petrolio del continente. Eppure nell’elenco dei paesi ordinati per miglior rapporto tra crescita economica e prosperità è penultimo, seguito solo dalla Repubblica Centrafricana, mentre al primo posto si trova il Rwanda, molto meno ricco dell’Angola e di tanti altri stati, seguito dal Senegal e dal Marocco. 

Non si fa menzione nel Rapporto al fatto che Eduardo dos Santos, dal 1979 unico presidente dell’Angola indipendente, è il capo di stato africano più ricco, con un patrimonio personale calcolato in 20 miliardi di dollari. Sua figlia Isabel, prima donna africana a diventare miliardaria, oggi è la donna più ricca di tutto il continente. Si può scommettere che presto lo sarà ancora di più. Il 3 giugno infatti suo padre l’ha nominata capo della Sonangol, l’azienda petrolifera di stato. 

Piuttosto che descrivere i fattori che determinano il divario maggiore tra crescita economica e prosperità – malgoverno, corruzione, tribalismo… – il Rapporto del Legatum Institute preferisce indicare le caratteristiche positive, peraltro correttamente individuate, dei paesi in cui il divario è minore. La prima è la complessità economica che riduce la dipendenza dalle materie prime. La parola d’ordine è: produrre vino, non grappoli d’uva, automobili, non minerali grezzi. Sono proprio i paesi produttori di petrolio e di minerali quelli che registrano il divario crescita/prosperità più grande. La seconda caratteristica è il governo, anzi il buon governo che, per essere tale, non solo deve combattere la corruzione, ma incoraggiare lo sviluppo del settore privato. L’ultima caratteristica è l’insieme dalle libertà personali, garanti dei diritti di proprietà, della libertà di espressione, associazione e partecipazione politica. Sono questi i fattori necessari allo sviluppo dell’Africa, che da sola la crescita economica non basta a garantire. 

Quello del divario tra crescita economica e sviluppo umano è un problema che solleva seri interrogativi sul futuro del continente – sostiene il Rapporto – tanto più adesso che la sua economia ha incominciato a crescere a un ritmo più lento. Nel 2015 la media sub-sahariana di crescita del Prodotto interno lordo è scesa al 3,5%, l’incremento più basso degli ultimi 15 anni, e per il 2016 si prevede un aumento solo del 3%, appena di poco superiore al tasso di crescita demografica. Nei suoi anni di maggior sviluppo, l’Africa tuttavia è stata superata dall’Asia e dall’Europa orientale. Dal 1990 al 2012 il tasso di povertà in Asia orientale, ad esempio, è passato dal 60,6% al 7,2%. Nello stesso periodo in Africa sub-sahariana è sceso soltanto dal 56,8% al 42,7%. Il rischio, in una fase di crescita minore, è che il continente venga ulteriormente distanziato dal mondo sviluppato.