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ECONOMIA

La via dolorosa della Grecia

Permane la crisi di un anno fa, ma Atene può dimostrare che stare nell'euro non vuol dire far pagare agli altri la propria inefficienza.

Attualità 12_05_2011
Drcame greche
Il caso Grecia, come già nella primavera del 2010, ha fatto irruzione sui mercati finanziari internazionali, mercati ancora intontiti dopo la gravissima crisi del 2009. Secondo il settimanale tedesco Der Spiegel, il governo di Atene avrebbe iniziato a prendere in considerazione la possibilità di uscire dall’euro ripristinando la dracma come moneta nazionale: la notizia è stata subito smentita, sia dalla Grecia che dall’Europa, ma è bastata a mettere in fibrillazione  operatori e  soprattutto speculatori. E come se non bastasse pochi giorni dopo l’agenzia di  rating Standard & Poor ha abbassato il giudizio, già molto basso, sull’affidabilità del debito greco provocando a sua volta un’altra ondata di paura e quindi di cadute sui mercati finanziari.

La Commissione Europea si è affrettata ancora una volta a rassicurare garantendo alla Grecia il sostegno finanziario necessario a superare la crisi e a mettere a punto un ambizioso piano di risanamento e di rientro dal debito.

I problemi tuttavia sono ben lungi dall’essere risolti e anche se l’ipotesi di uscita dall’euro appare remota anche perché difficilmente praticabile, continuano a rimanere consistenti le voci di una ristrutturazione del debito greco, cioè di un sostanziale allungamento delle scadenze dei titoli attualmente in circolazione. A questa ipotesi non si oppone solo Atene, ma anche Paesi come le Germania e la Francia le cui banche hanno in portafoglio una quota rilevante di titoli greci.

È tuttavia difficile vedere concrete alternative a un intervento di questo tipo: cioè di un sostanziale consolidamento come hanno peraltro fatto Argentina e Russia nel 1999 e nel 2003. Certo, c’è il fatto che il debito greco è denominato in euro e questo potrebbe causare una reazione a catena sui mercati togliendo credibilità a tutte le emissioni nella valuta europea, con l’effetto di un sostanziale e pericoloso rialzo dei tassi. Ma si può anche sostenere che proprio il mantenere artificialmente in equilibrio i conti di un Paese come la Grecia, che per ora non è stata in grado di varare significative misure di risanamento, costituisce comunque un elemento di debolezza per tutta l’area della moneta unica.

Ci si può in pratica chiedere se l’Europa possa essere considerata più debole se ammette che la crisi greca può essere risolta solo con un taglio drastico oppure se è più debole riuscendo a caro prezzo a rimandare una scelta che appardenominato in euro, e praticamente inevitabile. In tutti due i casi non c’è alternativa alla debolezza.

Il debito di Atene ha ormai superato il 160% del prodotto interno lordo e un piano credibile di riduzione comporterebbe tagli alla spesa pubblica e aumenti delle imposte difficilmente gestibili e comunque tali da mettere ancora più alle corde un’economia sostanzialmente fragile.  

Una ristrutturazione del debito potrebbe comunque avvenire anche senza l’uscita di Atene dalla moneta unica. E potrebbe dimostrare che partecipare all’euro non vuol dire far pagare i conti della propria inefficienza agli altri Paesi. La solidarietà europea è giusto che ci sia, ma non può essere tale da diventare un paravento per l’irresponsabilità dei governi.