La verità prima di tutto ci giudica
Il racconto della conversione di Thomas Howard ci fa capire quanto la vera appartenenza a Cristo sia lontana dall'attuale tendenza a cercare nella Chiesa il luogo dove stare in pace, rilassarsi ed essere accolti così come siamo.
«Chi è cattolico da tutta una vita probabilmente non ha sentore di quale profilo terribilmente minaccioso assuma la Chiesa antica ad uno sul punto di convertirsi. Una decisione simile scoraggia esattamente come la decisione di abbandonare la propria cittadinanza ed espatriare in terra straniera […] realizzare questo cambiamento vuol dire, di fatto, smantellare il proprio universo e addentrarsi nell’ignoto o, quantomeno, in qualcosa di davvero strano».
Sentire la minaccia della Chiesa antica è un’espressione dai toni forti, quei toni che non siamo più in grado di sopportare. Ci siamo accomodati nella Chiesa, come se fossimo nei salotti se non dei Parioli romani, almeno in quelli di un modesto resort; l’importante è che la Chiesa serva al nostro benessere. Già altrove abbiamo grattacapi e prove, contese e sofferenze: almeno nella Chiesa vogliamo un luogo dove stare in pace, dove rilassarci, dove essere accolti così come siamo. Così si pensa e… addio conversione.
Thomas Howard aveva ben chiaro che la verità prima di tutto ci giudica; e questo è il segno che ci troviamo veramente di fronte alla verità, e non ad una proiezione di se stessi. In effetti, nel suo lungo e onesto itinerario di studio, la Chiesa antica lo aveva giudicato ed egli aveva riconosciuto la verità di quel giudizio: adesso toccava a lui agire di conseguenza, ben sapendo che quel passo era tremendamente esigente. Un passo che significava certezza di perdere il proprio lavoro (cosa che puntualmente si verificò), rischio di creare una situazione di separazione in famiglia, rottura di amicizie, abbandono di quel mondo «nel quale tutta la mia famiglia e il mio lignaggio erano fedelmente vissuti per generazioni». Di fronte a sé solo una grande incertezza di quello che avrebbe trovato nel concreto; perché in fondo il suo approccio al mondo cattolico era stato attraverso i libri: e quali libri!
Egli ne era perfettamente consapevole: «Da una parte c’era il cattolicesimo dei libri: non solo quello degli apostoli, dei Padri, dei martiri, dei santi e dei dottori della Chiesa, assieme al canto gregoriano, la polifonia rinascimentale e la messa in latino, ma anche degli scrittori la cui opera mi aveva sedotto e conquistato: il cardinal Newman, monsignor Ronald Knox, Louis Bouyer, Flannery O’Connor, Evelyn Waugh, Romano Guardini, […]. Non che loro mi avessero convertito, bisognerebbe dire piuttosto che avevano ben svolto il loro lavoro, testimoniare cioè lo splendore dell’antica Fede e puntare dritti al vero in tutta la sua radianza».
Dall’altra parte c’erano i cattolici concreti, che differivano dalla Chiesa incontrata nei libri, non solo per tempo e luogo, ma anche per quella diffusa abitudine di non distinguersi quasi in nulla dal mondo. «Insomma, ciò che mi stavo preparando a scegliere (o meglio, che mi sta stava attirando a sé) presentava questo grosso enigma: la Chiesa cattolica in tutta la sua antichità, autorità, unità, liturgia e sacramenti, ma anche quella stessa Chiesa vestita negli scialbi colori della contemporaneità ed eticità, persino della sua ignoranza».
Per quante siano le convinzioni maturate, la conversione è opera della grazia, che sola permette di compiere quello che la natura fa fatica persino a presentarsi come ipotesi concreta. «Rammento che mi inginocchiai e subito dissi: “Guidami, dolce Luce”, con le parole dell’inno che John Henry Newman aveva scritto quando si era trovato in uno stato di grande indecisione per la medesima domanda sulla Chiesa. Non potevo certo pregare: “Fa’ di me un cattolico”, dal momento che non volevo affatto spingermi tanto lontano». Howard era bloccato: pregava sinceramente per avere questa luce, ma temeva che quella luce lo avrebbe portato dove sì desiderava, ma ancora non pienamente voleva.
La grazia di Dio aveva deciso di prendere un volto, il volto a lui più caro: quello di sua moglie Lovelace. Era soprattutto lei che temeva di ferire, dirigendosi «ad una Mensa diversa da quella cui la mia signora attingeva la sua comunione tutte le settimane, a cui avevo cresciuto i miei figli e che io stesso avevo adorato per venticinque anni». Lovelace aveva più che intuito che nel cuore di suo marito era in corso una grande battaglia e che egli già guardava alla chiesa anglicana come a qualcosa che ormai stava dietro di sé. E lei glielo aveva detto chiaramente, quando, in una domenica d’autunno del 1984, «ad un certo momento della liturgia nella nostra parrocchia (anglicana) si girò verso di me e mi disse: “Tu non sei più qui, vero?”».
Sempre nell’autunno di quell’anno, fu ancora lei a prendere l’iniziativa: «”Devo dirti che il Signore non solo mi ha permesso di sopportare quello che hai deciso di fare, o ancor meno di accettarlo e basta: Egli mi ha dato delle ali di gioia. Voglio che questo sia il più bel giorno della tua vita”. Non solo non sono fatto per i gesti eroici – aggiunge Howard -, non vivo neppure tra segni, portenti, miracoli; eppure queste parole della mia signora sono stati il segno più netto e chiaro che io abbia mai vissuto. Per me è stata, e lo potrei giurare, la parola del Signore nel momento più pauroso del mio pellegrinaggio». Lovelace raggiungerà il marito nella Chiesa cattolica solo dieci anni più tardi, il tempo perché anche lei potesse maturare interiormente questa scelta. Thomas Howard invece fece la sua ultima comunione da anglicano il 31 dicembre 1984 ed il giorno dopo decise di frequentare la Messa cattolica. Alla vigilia di Pasqua del 1985 fu ricevuto nella Chiesa cattolica.