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Ora di dottrina / 149 – La trascrizione

La Verginità di Maria (III parte) – Il testo del video

Una delle obiezioni più comuni al dogma della verginità perpetua di Maria si basa sull’espressione “fratelli di Gesù”. Ma l’elasticità del termine “fratello” nelle lingue semitiche (e non solo) e la Settanta vanificano tale obiezione. La verginità di Maria anche dopo il parto: quattro ragioni di convenienza spiegate da san Tommaso.

Catechismo 02_02_2025

Proseguiamo le nostre Ore di dottrina con la conclusione del capitolo dedicato alla verginità di Maria Santissima. Ricordiamo che le due lezioni precedenti sono state dedicate alla verginità della Madonna nel concepimento di nostro Signore e, poi, al parto verginale della SS. Vergine (vedi qui e qui). Oggi dedichiamo questa lezione, l’ultima sul tema, alla verginità della Madonna dopo il parto e così comprendiamo il grande dogma della Madonna sempre vergine, che come abbiamo già visto include la sua verginità ante partum, in partu, post partum, cioè prima, durante e dopo il parto.

Il fatto che la Madonna abbia conservato la condizione verginale dopo il parto è un dato che non è presente, almeno non in modo esplicito, nelle Sacre Scritture. E tuttavia su questo dato la Chiesa si è espressa con estrema chiarezza, sulla base di una tradizione ben consolidata e che è testimoniata da molti Padri della Chiesa, tra cui, per ricordare quelli più noti, sant’Agostino, sant’Ambrogio e soprattutto san Girolamo, che si trovò anche a rispondere a delle ipotesi che negavano che la Madonna avesse scelto per sé lo stato verginale e che quindi questa verginità fosse perdurata anche dopo la nascita del Signore. In sostanza, Maria SS. non ha avuto rapporti di tipo coniugale né per concepire il Signore né successivamente.

Iniziamo con lo sgombrare il campo da alcuni luoghi comuni che dimostrerebbero – il condizionale è d’obbligo – che la Madonna, dopo il Signore, avrebbe avuto altri figli, generati per via naturale. Sgombriamo il campo perché alcuni, un po’ in tutti i tempi, non escluso il nostro, si rifanno a presunti testi che nella Bibbia dimostrerebbero appunto questo: il più classico è il riferimento ai “fratelli di Gesù”, che troviamo nel Vangelo, negli Atti degli Apostoli e anche nelle epistole di san Paolo. Ora, si è risposto mille volte a questa obiezione; è sempre stato chiaro che la semantica della parola “fratello” nella lingua e nella mentalità semitica non ha quella ristrettezza di significato che noi gli attribuiamo. Anche se in realtà dobbiamo onestamente riconoscere che anche nelle lingue moderne il termine “fratello” non indica semplicemente il figlio degli stessi genitori o di uno stesso genitore: può avere un’accezione molto più ampia, per cui si parla di fratellanza in termini di nazionalità, di fratellanza universale, eccetera.

Dunque, “fratello” è un termine molto elastico. Ma facciamo notare, in modo un po’ più rigoroso, che nella Sacra Scrittura abbiamo esempi espliciti di persone che vengono definite “fratello di”, ma sappiamo benissimo che non erano “fratelli di”… I casi più noti sono quelli di Lot e Giacobbe. Lot è descritto come il fratello di Abramo; e Giacobbe come il fratello di Labano. Ma sappiamo che sia l’uno che l’altro erano in realtà i nipoti, rispettivamente, di Abramo e di Labano. Dunque, non c’è univocità semantica di questo termine.

Se passiamo ai Vangeli, vediamo che i “fratelli di Gesù” vengono nominati sia nel Vangelo di Marco che nel Vangelo di Matteo: in particolare, i due fratelli nominati sono Giacomo e Ioses. Questi fratelli saranno poi riconosciuti come figli di una Maria diversa dalla SS. Vergine. Tra le donne che assistevano da lontano alla crocifissione, Marco descrive una «Maria madre di Giacomo il minore e di Ioses» (Mc 15,40), a volte conosciuta anche come Maria di Giacomo e, in riferimento alla relazione di tipo coniugale, Maria di Cleofa. Chiaramente non si comprende, se si trattasse della stessa SS. Vergine, perché la si dovrebbe chiamare “Maria madre di Giacomo e Ioses” e non “Maria, la madre di Gesù, la madre del Signore”.

Un’obiezione che viene mossa a questa spiegazione è il fatto che il greco conosce il termine che distingue il fratello dal cugino, cioè c’è un termine proprio che indica il cugino e che lo distingue da un rapporto di stretta fratellanza. Tuttavia dobbiamo osservare che la Settanta – ossia la versione greca dell’Antico Testamento, tradotto appunto dall’ebraico al greco da autori che evidentemente conoscevano entrambe le lingue – continua a mantenere, pur avendo la possibilità di utilizzare il termine greco indicante il cugino, il termine fratello, in fedeltà – potremmo dire – all’ebraico, quasi come un calco. Dunque, l’obiezione di per sé non è rigorosa: il fatto che ci fosse un termine non significa che quel termine si sarebbe dovuto utilizzare necessariamente per fare questa distinzione.

L’altra questione che mi preme sottolineare è che “i fratelli del Signore” così come sono nominati, ad esempio, nel primo capitolo degli Atti degli Apostoli e nella Prima lettera ai Corinzi (9, 5) erano, per così dire, un gruppo particolare all’interno della Chiesa primitiva. Cioè, a fianco degli Apostoli, c’era un gruppo che aveva un riconoscimento in qualche modo onorifico all’interno della Chiesa primitiva e che era detto appunto “fratelli del Signore”, a indicare coloro che avevano dei rapporti di parentela con Gesù, non necessariamente di fratellanza in senso stretto. Dunque, il fatto che nel Nuovo Testamento, Vangeli compresi, si conservi il termine “fratelli del Signore” non indica semplicemente una relazione di consanguineità – cosa che c’è, in senso ampio – ma indica anche un’appartenenza (come per Giacomo) a un gruppo particolare riconosciuto all’interno della Chiesa primitiva. Non è difficile immaginare che questo particolare onore fosse dato proprio per il fatto dei rapporti stretti nella vita vissuta con il Signore Gesù nei trent’anni precedenti all’incontro del Signore con i discepoli e con coloro che saranno gli Apostoli: è anche una particolare custodia di memoria. Dunque, come visto, la questione dei cosiddetti fratelli di Gesù non dimostra per nulla che la Madonna abbia avuto altri figli dopo il Signore.

L’altro punto che viene di frequente obiettato lo troviamo nel Vangelo di Matteo (1, 24-25), dove leggiamo che san Giuseppe prese con sé la sua sposa e non la conobbe finché diede alla luce il figlio. Ora, questo “finché” è stato interpretato da alcuni in questo senso: fin lì non l’ha conosciuta e quindi si può ammettere la concezione verginale e anche il parto verginale, ma quel finché ci indica che da lì in poi la conoscenza in senso biblico e quindi i rapporti con il marito si siano invece verificati.

Ora, anche qui questa parola, questo “finché” va ricondotto all’interno del contesto biblico in cui compare. Noi nella Bibbia troviamo altre volte questo “finché” o “fino a quando”, a seconda delle traduzioni, nelle quali è evidente che il termine non ha il significato letterale che gli attribuiamo, cioè “fin lì e poi accade diversamente”.

Il primo caso è quello che troviamo nel Secondo libro di Samuele (6, 23) dove leggiamo: «Mikal, figlia di Saul, non ebbe figli finché non morì». È evidente che questo finché non indica che dopo li abbia avuti, perché poi è morta…

Un altro testo, ancora più famoso, è il primo versetto del Salmo 110: «Il Signore ha detto al mio Signore: “Siedi alla mia destra finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi”». Va da sé che questo sedere alla destra, questo regnare non finisce una volta che i nemici sono stati posti a sgabello dei piedi; semmai, indica una pienezza. Vi sono altri testi simili, ma questi due esempi sono sufficienti a farci comprendere che questo “finché” non indica un cambiamento successivo, come invece pensano quelli che leggendo il Vangelo di Matteo credono che “fin lì” Giuseppe non conobbe Maria, ma, una volta dato alla luce il figlio, la conobbe: non è questo il significato “obbligato” di questo termine.

Un’altra obiezione è riferita al termine “primogenito”, che troviamo nel Vangelo di Luca: «Diede alla luce il suo figlio primogenito» (2, 7). Da qui l’obiezione: se è il primogenito, vuol dire che è il primo di molti fratelli e dunque ne consegue o, meglio, ne conseguirebbe che a Gesù siano seguiti altri fratelli di cui Egli era il primogenito. In realtà, nel mondo ebraico, il primogenito non indica necessariamente il primo di molti, ma è colui che per primo, come si dice, “apre la vulva materna”, apre la strada del grembo materno ed è soggetto – secondo le indicazioni del capitolo 13 del libro dell’Esodo – all’obbligo del riscatto. Il primogenito è dunque una categoria che indica appunto l’obbligo del riscatto, colui che deve essere riscattato secondo le indicazioni della Legge. Ora, che questi sia poi l’unico figlio o il primo di altri, non importa all’interno della Legge mosaica: importa semplicemente che sia il primo uscito dal grembo materno, anche se poi è l’unico. Dunque, il primogenito indica questa persona specifica, ma non indica necessariamente che a lui debbano seguire altri.

Ed è interessante notare che, per esempio, in una scoperta del 1922, riguardante dei sepolcri intorno a Gerusalemme, venne scoperto un epitaffio sepolcrale di una donna che risale al 4 a. C. Questa donna era morta dopo il primo parto. Un rilievo importante – fatto notare dal mariologo P. Stefano De Fiores (1933-2012) – è che quell’epitaffio riporta scritto: «Ma la sorte, nei dolori del parto del mio figlio primogenito, mi condusse al termine della vita». Ora, è evidente che questa donna è morta per i dolori, per le complicazioni del parto del suo primogenito: evidentemente, non ha avuto altri figli, ma viene comunque utilizzato il termine “primogenito” a indicare quanto dicevamo prima. Non un’indicazione di un primo di molti, ma un’indicazione di colui che per primo esce dal grembo materno, anche se poi resta l’unico, come in questo caso e come anche nel caso della Sempre Vergine Maria.

Vediamo adesso l’articolo 3 della quæstio 28 della III parte della Somma Teologica, in cui san Tommaso ci elenca le ragioni di convenienza per cui la Madonna è stata vergine anche dopo il parto. Vi ricordo la pregnanza del termine “convenienza”, quindi la sapienza di questa disposizione divina. In questo articolo san Tommaso cita anche le obiezioni che abbiamo appena commentato, per cui non ripetiamo questa parte e andiamo direttamente al corpo dell’articolo.

San Tommaso spiega che si deve condannare l’errore di chi ritiene che la Madre di Cristo, dopo il parto del Signore, ebbe rapporti coniugali e quindi generò altri figli. E nella Summa elenca quattro ragioni di convenienza del per rigettare il suddetto errore: «Primo, perché ciò deroga alla dignità di Cristo: il quale, come per la natura divina è l’unigenito del Padre, quale suo Figlio assolutamente perfetto, così conveniva che fosse l’unigenito della Madre, quale suo frutto perfettissimo» (III, q. 28, a. 3). Qui abbiamo una ragione fondamentale. Anzitutto, la troviamo nel parallelo tra il fatto di essere unigenito del Padre (come dice san Giovanni nel prologo del quarto Vangelo) e la conservazione di questa caratteristica come unigenito della Madre. Ricordiamo il parallelo tra le due generazioni: generato dal Padre senza madre nell’eternità; generato dalla Madre senza padre nel tempo. E si mantiene il parallelismo con l’affermazione dell’essere unigenito.

Ma ancora più importante è la ragione portata da san Tommaso. Lui dice infatti: «(…) quale suo Figlio assolutamente perfetto [Figlio del Padre], così conveniva che fosse l’unigenito della Madre, quale suo frutto perfettissimo». Cioè, l’essere unigenito deriva dalla sua natura di essere perfettissimo, perfetto Dio e perfetto uomo. È come dire: dopo che Lui aveva aperto la strada alla maternità verginale della Madonna, non era conveniente che altri venissero dopo di Lui, in quanto in Lui c’era già tutta la perfezione dell’umanità – tutta la perfezione immaginabile che si è verificata nel passato e che ci sarebbe mai stata nel futuro – perché la sua umanità era congiunta ipostaticamente alla persona del Verbo. Questa sua caratteristica è unica e irripetibile.

La seconda ragione di convenienza, aggiunge san Tommaso, «è perché tale errore offende lo Spirito Santo che nel seno della Vergine, divenuto suo santuario, formò la carne di Cristo. Per cui non era decoroso che in seguito questo seno verginale fosse violato da rapporti coniugali» (ibidem). Attenzione a non dare una lettura negativa di questo testo: non si sta dicendo che i rapporti coniugali sono un male, ma semplicemente che lo Spirito Santo ha costituito il grembo della Vergine come suo santuario, come sua dimora santa. Santa vuol dire “separata da” e quindi dedita totalmente a Dio. Questa consacrazione che lo Spirito Santo fa della Vergine, in particolare del suo grembo, esclude una compartecipazione e dunque la possibilità che la Madonna facesse entrare in questo santuario consacrato da Dio, per Dio solo, altri, fosse anche, come nel caso di san Giuseppe, uno dei più grandi santi della storia.

È importante, perché qui ricorre il senso della santità. La santità non è violata solamente dal male morale, dal peccato; la santità – intesa come sacralità, come questa dedizione esclusiva a – è intaccata, è profanata non solamente dal male morale ma da tutto ciò che non è consono, conforme a questa dedicazione esclusiva a Dio. In questo caso, la totale consacrazione del grembo della Madonna da parte dello Spirito Santo escludeva un ritorno ad un uso – pur assolutamente buono e lodevole come quello del rapporto coniugale – non conforme a questa santità, a questa consacrazione. Questo teniamolo sempre presente, perché abbiamo perso questo senso del sacro. Noi pensiamo che ad offendere il sacro sia solamente una cosa cattiva, il peccato: non è così, è perché abbiamo perso noi il senso del santo, del separato, dedicato a Cristo, e riduciamo questa pregnanza del termine “santo” e “separato”.

Aggiunge san Tommaso: «Terzo, perché ciò compromette la dignità e santità della Madre di Dio, la quale si sarebbe dimostrata sommamente ingrata se non si fosse accontentata di un figlio così grande e se avesse voluto perdere spontaneamente con dei rapporti coniugali la verginità che un miracolo le aveva conservato» (ibidem).

Anche qui, attenzione al concetto: san Tommaso ci sta dicendo che la dignità e santità della Madre di Dio sono state rese evidenti. Da che cosa? Anzitutto dal fatto che a Lei era stato donato il Figlio di Dio, quel frutto perfettissimo di cui abbiamo parlato.  Dunque, all’apparire del Figlio perfettissimo, di colui che è il Figlio unigenito del Padre, non è più possibile desiderare altro. La Madonna non sarebbe stata “ingrata” nel senso di maleducata: non è questo il senso; ma il senso è che non sarebbe stata grata a Dio, non sarebbe stata “alla misura di Dio”, a quella misura che si è manifestata nella grandezza del Figlio. Sarebbe un po’ come dire: chi vede Dio non può desiderare più altro. Questa è la prima ragione.

La seconda, ci dice san Tommaso, è che non sarebbe ragionevole pensare che la Madonna, avendo ricevuto il Figlio di Dio in una modalità miracolosa come il concepimento e il parto verginale, avesse poi violato questa verginità che Dio stesso le aveva custodito e consacrato. Chiunque abbia un po’ il senso della dedizione a Dio e della consacrazione a Dio, comprende che è incompatibile pensare che una creatura santa e perfetta come la Madonna potesse cercare di violare quella verginità che Dio stesso le aveva ispirato, le aveva consacrato con un concepimento e un parto così miracoloso e straordinario come quello verginale.

Ultima ragione di convenienza della verginità di Maria anche dopo il parto: «Quarto, sarebbe da rimproverare a Giuseppe la massima presunzione se egli avesse tentato di profanare colei che aveva concepito Dio per opera dello Spirito Santo, come egli sapeva per rivelazione angelica» (ibidem). Diciamo che quello che abbiamo detto poco fa per Maria Santissima lo possiamo dire in riferimento anche a san Giuseppe: cioè, come alla Madonna non passava minimamente per la testa di violare quello che Dio le aveva rivelato e che aveva custodito per Lei, parimenti san Giuseppe non ebbe minimamente l’idea di violare il mistero di Maria. A lui era stato rivelato e affidato il concepimento e il parto verginale della Madonna, comprendendo dunque che questa giovane donna era entrata nel mistero di Dio, era entrata in un rapporto del tutto unico con Dio: la teologia dirà che è entrata nell’ordine ipostatico. San Giuseppe non avrebbe mai violato questa sponsalità della Madonna direttamente con Dio.

Dunque, conclude Tommaso: «Dobbiamo quindi affermare, senza alcuna riserva, che la Madre di Dio, come da vergine concepì e da vergine partorì, così anche dopo il parto rimase vergine per sempre» (ibidem).

Ci rimane da vedere l’art. 4 che è relativo al voto di verginità della Madonna, di cui ci occuperemo nella prossima Ora di dottrina, nella quale tratteremo anche dello Sposalizio di Maria Santissima con San Giuseppe.



Ora di dottrina / 149 – Il video

La Verginità di Maria (III parte)

02_02_2025 Luisella Scrosati

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Ora di dottrina / 148 – La trascrizione

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26_01_2025 Luisella Scrosati

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Ora di dottrina / 147 – La trascrizione

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19_01_2025 Luisella Scrosati

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Ora di dottrina / 149 – Il supplemento

La Theologia crucis in san Tommaso, retta sintesi di natura e grazia

02_02_2025 Luisella Scrosati

Diversamente dall’impostazione paradossale di Lutero, san Tommaso non contrappone natura e grazia, ma ne spiega l’organico rapporto, con la seconda che perfeziona la prima. La sua teologia sacramentale si fonda sulla virtus della croce, con un sano et-et: iniziativa divina e collaborazione umana.