La vendetta dei neri contro arabi e tuareg
I jihadisti hanno imposto la più severa forma di sharia alle popolazioni del centro-nord del Malì, tuareg ma soprattutto neri. Il conflitto che si sta sviluppando non ha però connotati religiosi. Il razzismo qui ha radici antiche, anche se l'Occidente lo dimentica.
I jihadisti hanno imposto per otto mesi la più severa forma di sharia alle popolazioni del centro-nord del Malì, tuareg ma soprattutto neri. Ora che l’offensiva franco-africana ha messo in fuga i miliziani jihadisti la popolazione festeggia la liberazione e si consuma la vendetta degli africani sugli odiati “pelle bianca” arabi e tuareg.
Difficile trovare connotati religiosi in questa contrapposizione poiché in Malì il 90 per cento della popolazione è musulmana anche se l’Islam africano è da sempre molto meno rigoroso di quello arabo e certamente di quello qaedista. I miliziani islamisti hanno infatti trovato molta resistenza a imporre la sharia alle popolazioni nere, difficoltà simile a quelle riscontrate dai miliziani qaedisti Shabab in Somalia.
Secondo quanto riferito da alcune organizzazioni non governative e da fonti di stampa i soldati maliani si sono resi responsabili di una serie di esecuzioni sommarie e abusi dei diritti umani nelle operazioni condotte a fianco delle truppe francesi che hanno permesso di riconquistare numerose città incluse Gao e Timbuctù. La denuncia di violenze e rappresaglie arriva da un gruppo a tutela dei diritti umani, l'International Federation of Human Rights Leagues che ha chiesto una commissione d'inchiesta indipendente per "determinare l'entità degli abusi e punire i responsabili".
Difficile dare la misura del fenomeno poiché le operazioni belliche facilitano l’eliminazione di “facce bianche” accusabili di essere terroristi o uomini delle milizie di al-Qaeda, Ansar Eddine o Mujao. A Gao le truppe francesi e maliane stanno dando la caccia ai jihadisti che vi si nascondono e secondo una corrispondenza del quotidiano mauritano Alakhabar alla caccia stanno collaborando dei giovani della città che indicano ai militari i rifugi e le case dove i miliziani potrebbero avere trovato riparo.
Un contesto nel quale è facile passare dalla caccia al terrorista alla pulizia etnica accusando di fatto ogni tuareg o arabo di essere un nemico. Per salvare la faccia davanti alla comunità internazionale il governo del Mali ha deciso di dispiegare due nuove unità di polizia militare per proteggere i civili e le loro proprietà a Gao e Timbuctù, ma i tuareg sospettano che proprio questi reparti abbiano il compito di attuare la repressione nei loro confronti.
Nell’estremo Nord i miliziani tuareg laici del Movimento nazionale di liberazione dell'Azawad (Mnla) hanno approfittato della fuga dei quaedisti nel deserto per assumere il controllo di Kidal e dei centri di Tessalit, Lere', In Khalil, Anefis, Tinzawatene, Tessit e Talatayt “allo scopo di garantire la sicurezza dei beni e soprattutto delle persone, alla luce dei gravi pericoli che incombono sulle loro vite con il ritorno dell'esercito maliano nell'Azawad". Violenze che contemplano "più di cento casi di persone uccise in rappresaglie etniche" condotte dai soldati governativi, che prendono di mira in particolare "tuareg, peul, songhai e arabi" che rappresentano un terzo della popolazione maliana.
L’Mnla è stato il primo movimento indipendentista tuareg a iniziare la rivolta prima di venire scavalcato dai più potenti e meglio armati gruppi islamisti contro i quali dice ora di volersi battere al fianco dei francesi e del governo maliano al quale chiede la concessione dell’autonomia dell’Azawad in un ambito federale. Senza un accordo tra governo e Mnla alla guerra alla guerra ai jihadisti potrebbe sovrapporsi un sanguinoso conflitto etnico. Un processo uguale a contrario a quello che si registrò in Libia dopo la caduta di Gheddafi quando tutti gli immigrati africani e i moltissimi libici con la pelle nera subirono uccisioni di massa, saccheggi, stupri, torture, violenze e reclusioni in almeno 80 prigioni clandestine gestite dalle diverse milizie.
Bastava avere la pelle scura per essere marchiato come un “mercenario di Gheddafi”. Del resto l’ostilità e l’odio razzista tra arabi e neri non è una novità e ha le sue radici nella tratta degli schiavi perpetrata per secoli nel Sahel dagli arabi (e ancora vigente fino a pochi anni or sono in Sudan) e nell’islamizzazione delle terre a sud del Sahara in una fascia che si estende dal Golfo di Guinea alle coste somale.
«Siamo la brigata che ripulirà la Libia dagli schiavi neri» si leggeva sui muri di Tawergha, la città libica abitata da neri di fatto cancellata dalla pulizia etnica dalle milizie di Misurata dopo la caduta di Gheddafi.
Oggi l’intera Libia sta sprofondando nel caos ma Tripoli ha perso già da un anno il controllo del Fezzan, l’ampia regione desertica del sud abitata anche da tribù di colore insorte contro i soprusi dei miliziani arabi.
Il termine “schiavi” viene ancora usato dalle etnie somale per indicare il milione di neri bantù che vivono nel Paese dell’Africa orientale e del resto chi ha frequentato quelle regioni sa bene quanto sia radicato il razzismo nelle società arabe e africane. Un aspetto che a fatica viene percepito in un Occidente impegnato più nell’arduo compito di far combaciare la realtà con i suoi valori e i suoi principi “politicamente corretti” che a comprenderla.