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il caso

La tribù del buon selvaggio, il wokismo e l'evangelizzazione

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La notizia della scoperta di una tribù di indigeni in Amazzonia che non ha mai avuto contatti con la civiltà, spinge a riflettere sulle modalità di incontro e sulla necessità di evangelizzazione. E qualche cattolico zelante già viene preso dal mito del buon selvaggio in salsa woke. 

Editoriali 04_01_2025

Come avrebbe commentato don Giussani, al cui pensiero si ispira il quotidiano online Il Sussidiario, l’articolo firmato da Riccardo Prando il 26 dicembre 2024? Nel giorno in cui viene ricordato il primo uomo che si è fatto uccidere per testimoniare la sua fede in Gesù Cristo abbiamo appreso che in Amazzonia sarebbe stata localizzata una tribù «mai contattata dall’uomo bianco, di cui … ignora l’esistenza». Secondo l’autore del pezzo questo sarebbe un bene «dopo le carneficine dei secoli passati e le stragi causate dai contagi per le malattie». Per cui si sarebbe deciso di «documentare l’esistenza di questa popolazione non attraverso un contatto fisico diretto, ma per mezzo di alcune telecamere comandate a distanza». Per Riccardo Prando questo è un «regalo di portata straordinaria» perchè «ci mette di fronte all’ultima possibilità di osservare da vicino [sic! con la telecamera…] … come eravamo e, tanto nel bene quanto nel male, come ci siamo trasformati».

Fin qui siamo nel puro e semplice “wokismo” che oggi va per la maggiore, dove uno dei più triti stereotipi della modernità, la leggenda del “buon selvaggio” inventata da Rousseau che proietta nell’immaginario collettivo un uomo primitivo saggio e felice in un mitico stato di natura, si riversa paradossalmente proprio in quel paternalismo caratteristico dell’“uomo bianco” che si vorrebbe stigmatizzare. Il popolo «totalmente dipendente dalla natura, armato di archi e frecce, organizzato in piccole e piccolissime comunità dedite alla caccia, alla pesca, alla raccolta dei piccoli frutti, ignaro dell’agricoltura e della scrittura», viene osservato dai suoi simili, che dispongono dei moderni mezzi di cura dalle malattie, vivono senza temere la fame, dedicano tempo ad attività materiali e intellettuali svolte per puro diletto, inclusa la visione di popoli “primitivi” sugli schermi dei televisori nei loro comodi salotti. Un grande “Truman show” per la gioia degli antropologi che ci fa sentire tutti più buoni (e più evoluti) osservando un «frammento del mondo naturale», per usare ancora il lirico linguaggio di Riccardo Prando.

Temo però che il commento di don Giussani si sarebbe rivolto soprattutto alla chiusura teologica del pezzo. L’autore deduce un insegnamento dal fatto che la notizia sia arrivata poche ora prima di Natale: «… forse è un segno: Gesù è nato anche per loro ma lasciamo che sia solo Lui a saperlo. Troverà il modo per far arrivare la sua salvezza anche in mezzo alla foresta». Visto che Prando ce ne dà notizia ormai è impossibile lasciare che solo Gesù sappia della tribù amazzonica. Ma anche trascurando questa incongruenza quella proposta è una ben strana teologia. Gesù si è fatto carne per incontrarci nella nostra umanità, perchè potessimo vivere nella luce della sua presenza, che si prolunga nei gesti di salvezza compiuti dalla Chiesa che è il suo corpo mistico, ma noi cristiani “bianchi” non dobbiamo portare a questi nostri fratelli il lieto annuncio dell’angelo: dobbiamo in tutti i modi preservarli dall’incontro personale con Colui che salva, che risana quanto nella nostra natura è stato ferito dal peccato. Viene da chiedersi se, prima di salire al cielo, Gesù nell’assegnare ai suoi amici (con cui si era degnato, lui sì, di entrare in contatto fisico diretto, stando insieme, parlando, mangiando, condividendo) la missione “fino agli estremi confini della terra”, non abbia per caso aggiunto una qualche postilla, non riportata dai Vangeli, per escludere i «popoli preistorici».

Lascio la risposta agli esegeti. Io spero solo che qualche coraggioso missionario stia già preparando lo zaino e si appresti a raggiungere i nostri fratelli amazzonici per portare loro la Buona Notizia.