Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
San Beniamino a cura di Ermes Dovico
Venerdì della Bussola

La strategia sui dazi, segno che gli USA si sono indeboliti

Gli effetti distorsivi dei dazi: tasse di fatto e creatori di inflazione. All’origine delle scelte di Trump: il peso della geopolitica, Bretton Woods, gli squilibri commerciali e la coscienza della debolezza USA. Dal videoincontro della Bussola con Maurizio Milano.

Economia 29_03_2025

Le decisioni e gli annunci di Donald Trump sui dazi non sono da leggere solo in un contesto economico, ma in un più ampio quadro geopolitico, perché gli equilibri del mondo stanno cambiando e gli USA sono consapevoli che si stanno indebolendo su più livelli. Questa una delle linee di lettura fondamentali emerse nella diretta di ieri dei Venerdì della Bussola condotta da Stefano Magni, che ha intervistato Maurizio Milano, firma del nostro quotidiano e analista dei mercati finanziari.

A proposito dei recenti cali e delle turbolenze nelle borse, Milano ha spiegato che è ancora troppo presto per dedurne un legame diretto ed esclusivo con i dazi, sia perché si tratta di variazioni ancora poco rilevanti e fisiologiche (come molte ce ne sono state nel corso degli anni), sia perché non si sa con chiarezza, a parte qualche caso, la portata dei dazi stessi, «quali beni saranno colpiti, con quali percentuali, nei confronti di quali Paesi e soprattutto per quanto tempo».

Quel che è certo, aggiunge l’analista, è che i dazi non sono un buono strumento economico: «Alla fine creano distorsioni, importano inflazione, sono di fatto delle tasse a carico dei propri cittadini. E quando si vuole rispondere con dei contro-dazi, si entra in una situazione ancora peggiore perché poi nelle guerre commerciali perdono tutti». Perciò, quella dei dazi «non è sicuramente la strada giusta per assicurare la crescita economica».

A proposito di alcuni degli effetti distorsivi di un dazio, Milano osserva che esso «protegge certe industrie ma ne danneggia altre: è sempre un gioco in cui alcuni guadagnano e alcuni perdono. Quelli che guadagnano – è abbastanza evidente – sono i lavoratori delle industrie protette; quelli che perdono sono i lavoratori di altre industrie che vedono diminuire le loro esportazioni, quindi vengono danneggiate. I consumatori nel loro insieme, tendenzialmente, vengono danneggiati».

Ma se i dazi non convengono economicamente nemmeno al Paese che li impone, quale logica sta seguendo Trump? Secondo Milano, nel caso degli USA entrano in gioco altri importanti fattori, che allargano e complicano il quadro. Innanzitutto, il fatto che «gli Stati Uniti esprimono la divisa di riserva [il dollaro] a livello globale dal 1944, cioè dalla Conferenza di Bretton Woods. E questo ha determinato dei vantaggi sicuramente straordinari», di cui il collaboratore della Bussola fa alcuni esempi, ma anche delle ricadute negative sulla bilancia commerciale a stelle e strisce, «in profondo rosso strutturale da circa cinquant’anni».

Il sistema nato a Bretton Woods, che per gli USA è pure motivo di prestigio globale, è oggi messo in discussione da altri Paesi. Poiché è in corso «un riassetto geopolitico», è probabile che Trump – ragiona Milano – veda la leva dei dazi «come una misura per ridurre gli squilibri commerciali e far capire al mondo che la situazione finanziaria è sotto controllo e che quindi il dollaro rimarrà come divisa di riserva globale».

Dopo un accenno alla composizione del voto popolare alle ultime presidenziali statunitensi, l’analista ha ricordato che «Trump è andato al governo promettendo che avrebbe risollevato l’industria manifatturiera. Quindi lui ha in mente un riequilibrio della bilancia commerciale per aumentare la produzione in loco. A questo si salda il discorso di sicurezza di tipo geopolitico». In particolare, l’attuale gravità della crisi dell’industria manifatturiera statunitense inciderebbe anche in un eventuale scenario di guerra, mettendo a rischio ad esempio la fornitura di munizioni già nel breve-medio periodo. Milano ritiene dunque plausibile che dietro le ultime decisioni di Trump ci sia «questa percezione della propria debolezza», che si lega al rischio di una crisi finanziaria, all’altissimo debito pubblico, al deficit commerciale, al calo demografico, alla vulnerabilità nella difesa. Questo spiegherebbe, tra l’altro, «la politica distensiva nei confronti della Russia» e anche «l’ostilità nei confronti dell’Europa che è evidente soprattutto nelle parole del vicepresidente Vance, che oramai tratta gli europei come degli scrocconi perché abbiamo vissuto all’ombra della protezione americana per decenni e abbiamo una bilancia commerciale in forte attivo con gli Stati Uniti». Di qui, il forte richiamo agli europei a contribuire di più, a partire dalle spese per la Nato.

Insomma, dietro la politica dei dazi c’è un intreccio di ragioni, non solo economiche: «Probabilmente – spiega Milano – si sta chiudendo un lungo ciclo finanziario, economico, geopolitico che è iniziato a Bretton Woods nel ’44. E il mondo entra in una nuova situazione diventando di fatto multipolare; Trump lo ha detto più volte». «E anche molte sue intemperanze», unite al suo «atteggiamento da giocatore di poker», si spiegherebbero con la presa di consapevolezza del fatto che «la situazione degli Stati Uniti è veramente molto, molto grave», diversamente da quanto sembra ai più.

In un simile quadro, un ruolo importante lo potrà avere «un recupero della diplomazia. Trump ha già proposto alla Cina ma anche alla Russia di abbassare le spese militari, perché le spese militari negli Stati Uniti pesano per quasi mille miliardi di dollari all’anno. La Federazione Russa è sicuramente molto appesantita da tre anni di guerra. La Cina ha una popolazione che invecchia e un grandissimo debito. Rivedere la spesa militare al ribasso aiuterebbe tutti, però bisogna essere d’accordo, chiaramente».

Riguardo all’Europa, si registra una crisi a più livelli con l’amministrazione Trump, specie con Paesi come Francia, Germania e anche Regno Unito. Distanze che la politica dei dazi potrebbe accrescere. Ad ogni modo, rispondendo a una domanda di Magni, Milano ha fatto notare che «l’Ue finora ha messo più dazi di quanti ne hanno messi gli Stati Uniti», che a loro volta, dopo aver adottato politiche commerciali «in genere molto tranquille» (per via del sistema di Bretton Woods), adesso stanno cambiando strategia in ragione dei forti squilibri della bilancia commerciale.

Un altro motivo di attrito è il Digital Services Act e il modo in cui l’Ue tratta le Big Tech americane. Milano – autore de Il pifferaio di Davos, libro critico degli obiettivi del Great Reset – ricorda l’insistenza che Ursula von der Leyen e altri esponenti delle élite globaliste hanno verso la lotta alla disinformazione: peccato che questa insistenza non sia granché dettata da nobili motivi, ma dall’idea di diffondere solo un tipo di narrazione e di bloccare le informazioni sgradite (anche se magari vere) a quelle stesse élite.