RISORGIMENTO
La strage di Pontelandolfo e le amnesie di Amato
Il 14 agosto il piccolo comune nel beneventano ha ricordato i 150 anni della rappresaglia dei bersaglieri, che massacrarono almeno 400 persone.
Attualità
16_08_2011
Domenica 14 agosto Pontelandolfo, in provincia di Benevento, ha ricordato con una solenne cerimonia i centocinquant'anni dalla strage del 14 agosto 1861, forse la pagina più nera del Risorgimento.
Il 7 agosto 1861 - forse animati dalla falsa notizia di uno sbarco dei Borboni - un folto gruppo di "briganti" - un epiteto su cui oggi molto si discute - della "banda" dell'ex capitano borbonico Cosimo Giordano (1839-1888) s'impadroniscono dei comuni di Casalduni e Pontelandolfo, nel Beneventano, uccidendo quattro "galantuomini" favorevoli al governo di Torino e cinque carabinieri. L'11 agosto i bersaglieri tentano di riprendere il controllo di Pontelandolfo: ma cadono in un'imboscata, e quaranta di loro sono condotti a Casalduni e uccisi. Sull'episodio gli storici non sono concordi: non manca una tesi " complottista" - ma non incredibile - secondo cui le false voci sarebbero state diffuse da "galantuomini", proprietari terrieri intenzionati ad alimentare il conflitto per profittare poi della successiva, inevitabile repressione.
E la repressione ci fu, durissima. Su ordine del generale Enrico Cialdini (1811-1892), una colonna di cinquecento bersaglieri al comando del colonnello Pier Eleonoro Negri (1818-1887) entrò all'alba del 14 agosto a Casalduni, dove trovarono poche persone: molti, avvisati per tempo dell'arrivo dei soldati erano fuggiti. Andò peggio a Pontelandolfo, dove gli abitanti furono in gran parte sorpresi nel sonno. "Di Pontelandolfo e Casalduni - aveva scritto Cialdini a Negri - non deve rimanere pietra su pietra".
Un soldato, il filatore valtellinese Carlo Margolfo, descrisse poi nelle sue memorie quanto avvenne a Pontelandolfo, con parole che meritano di essere riportate per intero: "Al mattino del giorno 14 (agosto) riceviamo l'ordine superiore di entrare a Pontelandolfo, fucilare gli abitanti, meno le donne e gli infermi (ma molte donne perirono) ed incendiarlo. Entrammo nel paese, subito abbiamo incominciato a fucilare i preti e gli uomini, quanti capitava; indi il soldato saccheggiava, ed infine ne abbiamo dato l'incendio al paese. Non si poteva stare d'intorno per il gran calore, e quale rumore facevano quei poveri diavoli cui la sorte era di morire abbrustoliti o sotto le rovine delle case. Noi invece durante l’incendio avevamo di tutto: pollastri, pane, vino e capponi, niente mancava…Casalduni fu l'obiettivo del maggiore Melegari. I pochi che erano rimasti si chiusero in casa, ed i bersaglieri corsero per vie e vicoli, sfondarono le porte. Chi usciva di casa veniva colpito con le baionette, chi scappava veniva preso a fucilate. Furono tre ore di fuoco, dalle case venivano portate fuori le cose migliori, i bersaglieri ne riempivano gli zaini, il fuoco crepitava".
Ma il soldato Margolfo tace pudicamente gli stupri delle donne, che non risparmiarono né le anziane né le bambine, anche di nove o dieci anni, e la profanazione della Chiesa Madre, dove fu perfino strappata alla Madonna la sua corona, che risultano da altri resoconti e sono riassunti nella recente delibera comunale che ha proclamato Pontelandolfo "città martire". A lungo i dati ufficiali riconobbero solo diciassette vittime, fra cui la bambina di nove anni Concetta Biondi (1852-1861) che, per sfuggire alla violenza carnale, si rifugiò in una cantina dove fu inseguita e uccisa, con il suo sangue che si mescolava al vino che usciva dalle botti sventrate dai soldati.
Oggi si sa che i morti furono almeno quattrocento, dieci per ogni bersagliere ucciso secondo la logica perversa che tutti condannano per le Fosse Ardeatine ma dimenticano quando si tratta del Risorgimento e del Sud. Ma c'è chi parla di mille, aggiungendo episodi successivi di repressione e coloro che morirono per le ferite patite il 14 agosto.
Che Giuliano Amato, presidente del comitato per le celebrazioni dei centocinquant'anni dell'Unità d'Italia, sia voluto salire a Pontelandolfo in occasione del centocinquantenario dell'eccidio insieme a rappresentanti dei bersaglieri e al sindaco di Vicenza, la città del colonnello Negri, è certamente un dato positivo. Non giova alla vera unità d'Italia il silenzio o peggio la mistificazione sulle stragi e gli eccidi che costellarono la "conquista del Sud". Qualche dubbio resta però - e giustifica le polemiche manifestazioni separate di alcuni gruppi - quando si sentono nei discorsi ufficiali e si leggono negli articoli dei grandi quotidiani frasi secondo cui la memoria di Pontelandolfo non può né "rimettere in discussione il Risorgimento" né "rivalutare il Regno delle Due Sicilie".
Certo, non si tratta di sostituire una "leggenda rosa" alla leggenda nera che corre sul Regno dei Borboni. Ma non può essere vietato ricordare che la leggenda nera fu ampiamente diffusa dal Piemonte, dalla Gran Bretagna sua alleata e dalla massoneria, e che offuscò completamente i successi economici e culturali del Regno delle Due Sicilie, per non parlare delle sue ricchezze spirituali e religiose. Quella leggenda nera dura ancora oggi, e nessuno dovrebbe avere più paura di una storiografia obiettiva e onesta.
No, presidente Amato, Pontelandolfo e tante altre vergogne - basterebbe ricordare la deportazione nel forte piemontese di Fenestrelle di centinaia di soldati borbonici, lasciati morire di stento e di freddi dopo di che i loro corpi, troppo numerosi per essere sepolti, erano gettati in un pozzo di calce viva - mettono davvero in discussione il Risorgimento, che non va confuso con l'unita d'Italia. Se l'unità era un'aspirazione ragionevole, il Risorgimento fu il modo ideologico - centralista, laicista, anticattolico - di realizzare questa aspirazione. Le stragi come quella di Pontelandolfo non furono un incidente di percorso, ma il frutto avvelenato e inevitabile di quell'ideologia, che ancora pretende di egemonizzare il modo di raccontare l'Italia e la sua storia.