La strage comunista dimenticata dei monaci buddisti
É uscito il volume The Lama Question (La questione dei lama) dell’antropologo Christopher Kaplonski. Il volume è il primo studio accademico pubblicato in Occidente della repressione comunista, negli anni dello stalinismo, del buddhismo in Mongolia e sullo sterminio di 70mia monaci buddhisti mongoli, i lama.
Quando si parla di libertà religiosa, papa Francesco ricorda spesso che il problema non riguarda solo i cristiani. Riguarda tutti, perché le ideologie genocide del XX secolo se la sono presa con la religione in genere. Il Papa parla di «ecumenismo del sangue», perché le persecuzioni hanno preso di mira insieme cattolici, ortodossi e protestanti. Ma nel suo viaggio in Albania ha citato anche un dialogo interreligioso «del sangue», perché lì sono stati uccisi insieme cristiani e musulmani.
Nello stesso viaggio in Albania, Francesco ha evocato un tema che già Benedetto XVI aveva approfondito, specialmente quando si recò nella Repubblica Ceca: l’incapacità dell’Europa di fare i conti con il comunismo. Si sono archiviati i regimi comunisti, e si è avuto fretta di dimenticarli, rimuovendo memorie sgradevoli. Ma così facendo si è persa una grande occasione di riflettere sul nostro passato e sul nostro presente, se è vero – come ebbe a dire san Giovanni Paolo II – che i sanguinari regimi del XX secolo sono l’esito di un processo plurisecolare di scristianizzazione che, in altre forme, continua ancora oggi.
Va dunque salutata con favore la pubblicazione del volume The Lama Question (La questione dei lama: University of Hawai’i Press, Honolulu 2014) dell’antropologo sociale dell’Università di Cambridge Christopher Kaplonski, e il dibattito che ne è scaturito, di cui sono stato testimone al congresso annuale della American Academy of Religion, tenuto il mese scorso ad Atlanta. Il volume è il primo studio accademico pubblicato in Occidente della repressione comunista del buddhismo in Mongolia e sullo sterminio dei monaci buddhisti mongoli, i lama. Mi sono interessato della questione anche perché dieci anni fa, nel 2005, ho visitato la Mongolia, un Paese bellissimo e ricco di storia dove la memoria di queste tragedie è ancora ben viva, e dove esiste nella capitale Ulan Bator un Museo delle vittime della persecuzione politica.
Per comprendere le terribili vicende degli anni 1930 in Mongolia è necessario qualche elemento storico. La Mongolia ha una tradizione antichissima di religiosità sciamanica, che sopravvive ancora oggi. Quando Khublai Khan (pure figlio di una madre cristiana) si converte al buddhismo nel 1242, i monaci che affluiscono dal Tibet sopprimono alcuni elementi sciamanici, ma in gran parte incorporano lo sciamanismo nel buddhismo, trasformando gli spiriti degli sciamani in divinità buddhiste. Nonostante la conversione di Khublai Khan, il buddhismo diventa maggioritario in Mongolia solo nel XVI secolo, quando sono armi mongole a garantire la vittoria del “sistema” Gelug, uno dei vari “sistemi” buddhisti concorrenti, in Tibet e a conferire al suo leader il titolo e il potere di Dalai Lama.
Tra il XVII e il XVIII secolo Zanabazar – filosofo, scultore fra i maggiori della storia buddhista, uomo politico, e discendente di Gengis Khan – consacra la vittoria del buddhismo tibetano Gelug in Mongolia. Grande figura della storia mongola, è però controverso perché chiama in soccorso le armi cinesi, che faranno della Mongolia una provincia della Cina fino al 1911. Zanabazar è il primo Bogd Khan, una figura equivalente al Dalai Lama, e dà grande impulso alla vita monastica, soprattutto nel grande monastero di Erdene Züü, fondato da suo nonno a Kharakorum. Tra il XVIII secolo e gli inizi del XX, la popolazione maschile della Mongolia arriva a essere composta per oltre un terzo da monaci, il che non dispiace troppo ai cinesi perché i monaci non combattono, non si ribellano e non chiedono l’indipendenza.
Nel dicembre 1911, profittando della situazione in Cina, la Mongolia si dichiara indipendente. L’ottavo Bogd Khan diventa re della Mongolia e si installa in un palazzo reale a Urga, attuale Ulan Bator. Ma Cina, Russia e Giappone minacciano l’indipendenza del nuovo Stato. Nel 1920, in una situazione estremamente confusa, il nobile anticomunista russo barone Roman von Ungern-Sternberg occupa la Mongolia alla testa di un esercito personale. Tollerato dal Bogd Khan, si rivela un dittatore capriccioso e crudele. Due gruppi pre-esistenti di indipendentisti mongoli, uno non comunista e uno guidato dall’ex-lama divenuto marxista Choybalsan lottano contro il regime del barone. Nel 1921 proclamano per la seconda volta l’indipendenza, con il Bogd Khan che rimane sul trono. Ma questa volta chiamano in aiuto le truppe sovietiche, che rimarranno per settant’anni. Nel 1924 muore l’ultimo Bogd Khan; i sovietici dichiarano che non ha reincarnazioni e proclamano la Repubblica comunista.
Documenti emersi solo di recente dimostrano che Stalin considera la spopolata Mongolia un laboratorio per esperimenti da riproporre in caso di successo in Russia. Stalin sperimenta in Mongolia il tentativo di raggiungere la fase utopica del comunismo sognata da Karl Marx senza passare da quella intermedia del socialismo. Il tentativo richiede – purtroppo per la Mongolia – la soppressione fisica degli appartenenti alle classi sociali considerate strutturalmente incompatibili con il comunismo. Si fucilano i nomadi più ricchi, una parte cospicua della minoranza musulmana, molti esponenti della minoranza etnica buriata, i nobili e soprattutto una parte importante dei monaci buddhisti. Il costo umano dell’esperimento è valutato fra i sessantamila e i settantamila morti, un decimo della popolazione mongola dell’epoca. Sarebbe come se nell’Italia di oggi un regime decidesse di fucilare sei milioni di persone.
La lotta alla religione non è l’unico motore di questo genocidio. C’entrano anche la diffidenza personale di Stalin per i buriati – la maggioranza dei quali vive nella Siberia russa – e lotte interne al movimento comunista mongolo in cui, come in ogni rivoluzione, le fazioni cercano di sterminarsi fra loro. Ma è certo che l’elemento antireligioso è decisivo e che, in proporzione, sono i lama a pagare il prezzo più alto L’accostamento antropologico di Kaplonski non è l’unico possibile, e certamente il suo tentativo di comprendere le ragioni dei comunisti lascia perplesso il lettore. Il suo punto di partenza è che una strage di queste proporzioni – Kaplonski si occupa quasi solo del periodo 1937-1939, il peggiore, «un’orgia di violenza quasi inimmaginabile», con trentaseimila fucilati – non può derivare solo da una malvagità irrazionale. Cerca quindi di spiegare la logica dei comunisti mongoli, i quali cercano di sradicare il buddhismo prima con la propaganda e poi con la discriminazione legale e fiscale.
Senza risultato, considerato lo straordinario radicamento della religione nel Paese. Solo in una terza fase decidono quindi di ricorrere allo sterminio, che peraltro non è irrazionale e sporadico, ma programmato, e per ogni fucilato passa da un processo – per quanto sbrigativo – e da una sentenza. La forza del buddhismo in Mongolia secondo Kaplonski era tale che, se il comunismo non avesse distrutto la religione, la religione avrebbe distrutto il comunismo. Nelle ultime righe del libro l’antropologo rivela di essersi sorpreso, a furia di cercare di comprendere i comunisti, a “simpatizzare” per loro, pur rendendosi conto di essere nella stessa posizione di chi «cercasse di comprendere perché per i nazisti l’Olocausto fosse una soluzione ragionevole».
Kaplonski racconta di avere scritto e-mail preoccupate ai suoi colleghi, chiedendosi cosa gli stesse succedendo, e di avere con fatica riconquistato una prospettiva dove l’orrore può essere condannato senza però liquidarlo come semplicemente irrazionale. Resta tuttavia interessante la descrizione della progressione del regime in tre fasi, da una “tecnologia” antireligiosa all’altra, che assomiglia al modello adottato, su mia proposta, dall’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce) alla Conferenza di Roma del 2011 (anno in cui ero rappresentante Osce per la lotta al razzismo e alla discriminazione religiosa) secondo cui la lotta alla religione si muove su un piano inclinato, che parte dall’intolleranza (culturale), passa per la discriminazione (giuridica) e arriva inesorabilmente alla persecuzione.
Un aspetto saliente dell’opera di Kaplonski è la critica del mito, che anch’io ho incontrato in Mongolia, secondo cui tutto fu deciso e programmato da Stalin e semmai le autorità comuniste mongole cercarono di fermare o almeno di attenuare la repressione. L’antropologo sostiene che non fu così. Stalin diede indicazioni contraddittorie, e molti dei peggiori massacri furono decisi da comunisti mongoli, che non erano affatto semplici marionette nelle mani dei sovietici. Storici mongoli hanno risposto che questo risulta dagli archivi che Kaplonski ha esplorato, ma gli archivi sono stati manipolati dai sovietici, che vi hanno inserito anche documenti falsi. Complotti a parte, la discussione è importante, e ne ricorda analoghe in corso sul nazismo. È troppo comodo attribuire tutte le colpe a una sola persona, Stalin, o a pochi leader sovietici. L’odio ideologico comunista coinvolse anche le gerarchie locali, non meno colpevoli dei sovietici.
E l’odio si rivolse soprattutto contro la religione. In Mongolia nel settembre 1937 c’erano 83 mila monaci buddhisti, e il numero si era già considerevolmente ridotto dopo la rivoluzione del 1921. Alla fine del 1938 ce n’erano meno di cinquecento. Alcuni erano fuggiti o si erano auto-ridotti allo stato laicale, ma molti erano stati uccisi. A Ulan Bator c’erano sessanta monasteri attivi nel 1937, nessuno nel 1939. La mappa dei monasteri predisposta dal regime per organizzare la repressione è andata perduta, ma nel 1937 ne sopravvivevano più di seicento, ridotti a due nel 1939, tenuti in vita principalmente per essere mostrati ai visitatori stranieri come prova di una presunta libertà religiosa in Mongolia. Nonostante le proteste di intellettuali, anche comunisti e anche sovietici, molte opere d’arte furono bruciate e la maggioranza dei monasteri rasa al suolo, spesso utilizzandoli come bersagli per esperimenti con le bombe o l’artiglieria.
Qualcuno potrebbe chiedersi se non abbiamo già abbastanza da fare a riscoprire i milioni di cristiani uccisi dal comunismo per occuparci anche dei buddhisti. Ma non solo dal punto di vista morale chiunque abbia sacrificato la vita in nome della sua fede merita onore e rispetto. Dal punto di vista della storia, orrori come quello della Mongolia mostrano che l’ideologia comunista non attacca solo la Chiesa cattolica per la sua dottrina sociale o la sua ostilità al socialismo reale. Anche quando – come avvenne con i monaci buddhisti mongoli – un gruppo religioso, nella sua maggioranza, cerca di convivere con un regime comunista e non si occupa di politica, è la politica del socialismo reale a occuparsi di lui e a sterminarlo, perché l’odio per la religione è sempre parte integrante dell’ideologia marxista.