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MALA GESTIONE

La "sorpresa" chimica di Gioia Tauro

L'arrivo delle armi chimiche siriane al porto di Gioia Tauro, al largo del quale avverrà il loro smaltimento, è un'operazione poco rischiosa e politicamente doverosa, ma comunque sempre delicata. Peccato non avvisare le autorità locali.

Editoriali 20_01_2014
Gioia Tauro

La vicenda delle armi chimiche a siriane attese per inizio febbraio nel porto calabrese di Goia Tauro per essere poi trasferite a bordo della nave militare statunitense Cape Ray assomiglia a un compendio di cosa non si dovrebbe fare per gestire un’emergenza. Dopo 20 giorni di voci, indiscrezioni e smentite circa il porto italiano destinato a ospitare sulle sue banchine il trasferimento di 560 tonnellate di armi chimiche dal cargo danese Ark Futura alle stive della Cape Ray, è finalmente uscito, come da un sorteggio, il nome di Gioia Tauro.

Molti si aspettavano un porto sardo e infatti mezza isola si era già mobilitata per contestare la decisione e impedire l’attracco delle navi. Altri si attendevano un porto siciliano ma c’era chi era pronto a scommettere sui pugliesi Taranto o Brindisi. La decisione ultima pare sia stata presa dai tecnici dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac) che devono aver valutato la qualità delle infrastrutture del porto calabrese, ma è certo che il governo sapesse già da alcuni giorni in quale scalo si sarebbero effettuati i lavori di trasferimento dei container chimici. Sul piano politico si può discutere se l’Italia abbia fatto o meno bene ad accettare la richiesta di Washington di mettere a disposizione un porto per questa operazione che contribuisce al disarmo chimico del regime di Bashar Assad, un disarmo che anche Roma ha sostenuto in termini politici e finanziari con tre milioni di dollari versati all’Opac.

Forza Italia, dall’opposizione, ha contestato il fatto che al contrario dell’Italia perfino Albania e Croazia avevano rifiutato la richiesta statunitense, ma ai due Paesi balcanici era stato chiesto di ospitare sul loro territorio l’intero processo di smantellamento e smaltimento degli arsenali siriani, non di mettere a disposizione un porto per un’operazione che, se le tabelle di marcia verranno rispettate a Latakya (porto siriano dove vengono caricati i gas), richiederà non più di 48 ore. Il punto sul quale il governo è scivolato in modo dilettantesco è invece quello della comunicazione.

È vergognoso che il sindaco di Gioia Tauro, le autorità regionali calabresi e tutti gli italiani siano stati informati della scelta del porto da indiscrezioni anonime raccolte da agenzie di stampa e che solo dopo molte ore, il 16 gennaio, il governo le abbia confermate. È inaudito che notizie di livello strategico non siano state gestite nel massimo riserbo pur informando per tempo e con trasparenza le autorità locali per garantire la necessaria sicurezza e trasparenza.

I rischi di contaminazione chimica non sono in realtà superiori a quelli che si registrano normalmente anche in quel porto movimentando carichi industriali di prodotti tossici e le armi chimiche e i loro componenti non sono bombe pronte ad esplodere perché i tecnici dell’Opac le hanno disattivate prima di stoccarle e imbarcarle. Tuttavia è comprensibile che la presenza di questi aggressivi chimici in un porto italiano crei apprensione e costituisca motivo di speculazioni.

Un incidente sul lavoro può sempre verificarsi ma il carico in oggetto si presta soprattutto a riscuotere molta attenzione da parte di gruppi terroristici. Le autorità di Damasco hanno già registrato due attacchi di miliziani jihadisti ai depositi di armi chimiche in Siria e non si può escludere che l’occasione dello scalo di oltre 500 tonnellate di gas in un porto italiano non attiri qualche cellula qaedista suicida. Peccato che si sia persa l’opportunità per informare gli amministratori locali attraverso vie riservate imponendo il silenzio a tutti fino a pochi giorni prima dell’arrivo delle due navi. Una procedura che avrebbe offerto moltissimi vantaggi.

Innanzitutto eventuali malintenzionati non avrebbero avuto il tempo per preparare i piani per un attacco o azioni di disturbo. Questo vale per gruppi terroristi suicidi, ma anche per gli antagonisti violenti simili a quelli attivi in Val di Susa per il “no TAV”. Inoltre ci sarebbe stato tutto il tempo per discutere con le autorità locali dell’apparato e delle misure di sicurezza da dispiegare e di eventuali compensazioni da parte dello Stato ai comuni coinvolti nell’operazione. Un confronto tra governo ed enti locali che avrebbe potuto svilupparsi nella massima tranquillità senza l’enorme pressione esercitata ora dall’opinione pubblica e dalle opposizioni politiche.

L’errore del governo è stato quindi essenzialmente di tipo mediatico, a conferma di quanto questo aspetto rivesta sempre più frequentemente un carattere strategico, specie in situazioni di crisi, ma è stato gestito con superficialità fornendo a chi potrebbe minacciare l’ordine pubblico e le delicate attività di carico /scarico ben due settimane di tempo per pianificare provocazioni, azioni dimostrative o terroristiche.