Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
San Leonardo da Porto Maurizio a cura di Ermes Dovico

L'UDIENZA

La sonnolenza dei discepoli è la nostra insensibilità al male

All’udienza di mercoledì 20 aprile Benedetto XVI ha introdotto i fedeli nel mistero del Giovedì Santo.

Attualità 21_04_2011
Giovedì Santo

 

All’udienza di mercoledì 20 aprile Benedetto XVI ha introdotto i fedeli nel mistero del Giovedì Santo: un unico mistero, che però ne contiene diversi altri. Il Papa ha ricordato che giovedì «in mattinata, ciascuna comunità diocesana, radunata nella Chiesa Cattedrale attorno al Vescovo, celebra la Messa crismale, nella quale vengono benedetti il sacro Crisma, l’Olio dei catecumeni e l’Olio degli infermi. A partire dal Triduo pasquale e per l’intero anno liturgico, questi Oli verranno adoperati per i Sacramenti del Battesimo, della Confermazione, delle Ordinazioni sacerdotale ed episcopale e dell’Unzione degli Infermi».

Questi gesti, che possono sembrare di routine e si ripetono ogni anno, hanno in realtà un profondo significato. Con queste benedizioni infatti «si evidenzia come la salvezza, trasmessa dai segni sacramentali, scaturisca proprio dal Mistero pasquale di Cristo; infatti, noi siamo redenti con la sua morte e risurrezione e, mediante i Sacramenti, attingiamo a quella medesima sorgente salvifica».

Il Giovedì Santo, ha detto il Pontefice, è in un certo senso la festa del mistero del sacerdozio, perché «durante la Messa crismale [...] avviene anche il rinnovo delle promesse sacerdotali. Nel mondo intero, ogni sacerdote rinnova gli impegni che si è assunto nel giorno dell’Ordinazione, per essere totalmente consacrato a Cristo nell’esercizio del sacro ministero a servizio dei fratelli».

Ma naturalmente al centro del Giovedì Santo sta «la memoria dell’Ultima Cena, nella quale Gesù istituì il Memoriale della sua Pasqua, dando compimento al rito pasquale ebraico. Secondo la tradizione, ogni famiglia ebrea, radunata a mensa nella festa di Pasqua, mangia l’agnello arrostito, facendo memoria della liberazione degli Israeliti dalla schiavitù d’Egitto; così nel cenacolo, consapevole della sua morte imminente, Gesù, vero Agnello pasquale, offre sé stesso per la nostra salvezza (cfr 1Cor 5,7)». Insieme, il Signore s’inserisce nella tradizione della Pasqua ebraica e annuncia il mistero in cui Egli stesso si fa Pasqua, sulla croce e nell’Eucarestia. «Pronunciando la benedizione sul pane e sul vino, Egli anticipa il sacrificio della croce e manifesta l’intenzione di perpetuare la sua presenza in mezzo ai discepoli: sotto le specie del pane e del vino, Egli si rende presente in modo reale col suo corpo donato e col suo sangue versato. Durante l’Ultima Cena, gli Apostoli vengono costituiti ministri di questo Sacramento di salvezza; ad essi Gesù lava i piedi (cfr Gv 13,1-25), invitandoli ad amarsi gli uni gli altri come Lui li ha amati, dando la vita per loro». Il Giovedì Santo, ha sottolineato il Papa, è così la fonte e l’origine di tutta la liturgia cattolica.

Infine, il Giovedì Santo «si chiude con l’Adorazione eucaristica, nel ricordo dell’agonia del Signore nell’orto del Getsemani». Così Benedetto XVI ricorda quel tragico momento della vita del Signore: «Lasciato il cenacolo, Egli si ritirò a pregare, da solo, al cospetto del Padre. In quel momento di comunione profonda, i Vangeli raccontano che Gesù sperimentò una grande angoscia, una sofferenza tale da fargli sudare sangue (cfr Mt 26,38). Nella consapevolezza della sua imminente morte in croce, Egli sente una grande angoscia e la vicinanza della morte».

Ma qui «appare anche un elemento di grande importanza per tutta la Chiesa. Gesù dice ai suoi: rimanete qui e vigilate; e questo appello alla vigilanza concerne proprio questo momento di angoscia, di minaccia, nella quale arriverà il traditore, ma concerne tutta la storia della Chiesa». L’invito a vigilare, disatteso dai discepoli, «è un messaggio permanente per tutti i tempi, perché la sonnolenza dei discepoli era non solo il problema di quel momento, ma è il problema di tutta la storia. La questione è in che cosa consiste questa sonnolenza, in che cosa consisterebbe la vigilanza alla quale il Signore ci invita. Direi che la sonnolenza dei discepoli lungo la storia è una certa insensibilità dell’anima per il potere del male, un’insensibilità per tutto il male del mondo. Noi non vogliamo lasciarci turbare troppo da queste cose, vogliamo dimenticarle: pensiamo che forse non sarà così grave, e dimentichiamo. E non è soltanto insensibilità per il male, mentre dovremmo vegliare per fare il bene, per lottare per la forza del bene. È insensibilità per Dio: questa è la nostra vera sonnolenza; questa insensibilità per la presenza di Dio che ci rende insensibili anche per il male».

L’insensibilità dei discepoli incapaci di vegliare con il Signore è una terribile profezia delle tante infedeltà che costellano la storia della Chiesa, e riguarda anche noi oggi. «Non sentiamo Dio – ci disturberebbe – e così non sentiamo, naturalmente, anche la forza del male e rimaniamo sulla strada della nostra comodità. L’adorazione notturna del Giovedì Santo, l’essere vigili col Signore, dovrebbe essere proprio il momento per farci riflettere sulla sonnolenza dei discepoli, dei difensori di Gesù, degli apostoli, di noi, che non vediamo, non vogliamo vedere tutta la forza del male, e che non vogliamo entrare nella sua passione per il bene, per la presenza di Dio nel mondo, per l’amore del prossimo e di Dio».

Chi è capace di vegliare sente «il ritornello di questa preghiera del Signore: “Non la mia volontà, ma la tua sia realizzata”». Queste parole sono molto importanti perché ci aprono una finestra – come Benedetto XVI ha ricordato anche nel libro Gesù di Nazaret. Seconda parte – sulla vita intima di Gesù, sulla sua volontà insieme umana  e divina. Da una parte, la volontà dell’uomo Gesù «è “che non dovrebbe morire”, che gli sia risparmiato questo calice della sofferenza: è la volontà umana, della natura umana, e Cristo sente, con tutta la consapevolezza del suo essere, la vita, l’abisso della morte, il terrore del nulla, questa minaccia della sofferenza. E Lui più di noi, che abbiamo questa naturale avversione contro la morte, questa paura naturale della morte, ancora più di noi, sente l’abisso del male. Sente, con la morte, anche tutta la sofferenza dell’umanità. Sente che tutto questo è il calice che deve bere, deve far bere a se stesso, accettare il male del mondo, tutto ciò che è terribile, l’avversione contro Dio, tutto il peccato. E possiamo capire come Gesù, con la sua anima umana, sia terrorizzato davanti a questa realtà, che percepisce in tutta la sua crudeltà: la mia volontà sarebbe non bere il calice».

Ma in Gesù «la mia volontà è subordinata alla tua volontà, alla volontà di Dio, alla volontà del Padre, che è anche la vera volontà del Figlio. E così Gesù trasforma, in questa preghiera, l’avversione naturale, l’avversione contro il calice, contro la sua missione di morire per noi; trasforma questa sua volontà naturale in volontà di Dio, in un “sì” alla volontà di Dio».
Potremmo dire che questa perfetta coincidenza fra vera volontà dell’uomo e volontà di Dio, dopo il peccato originale, riguarda solo Gesù Cristo. È certamente così: ma nello stesso tempo il mistero del Getsemani riguarda anche noi «L’uomo di per sé è tentato di opporsi alla volontà di Dio, di avere l’intenzione di seguire la propria volontà, di sentirsi libero solo se è autonomo; oppone la propria autonomia contro l’eteronomia di seguire la volontà di Dio. Questo è tutto il dramma dell’umanità. Ma in verità questa autonomia è sbagliata e questo entrare nella volontà di Dio non è un’opposizione a sé, non è una schiavitù che violenta la mia volontà, ma è entrare nella verità e nell’amore, nel bene».

Anche la nostra volontà, se vuole tendere alla vera libertà, deve orientarsi verso la volontà di Dio, con l’aiuto della grazia del Signore Gesù Cristo. «E Gesù tira la nostra volontà, che si oppone alla volontà di Dio, che cerca l’autonomia, tira questa nostra volontà in alto, verso la volontà di Dio. Questo è il dramma della nostra redenzione, che Gesù tira in alto la nostra volontà, tutta la nostra avversione contro la volontà di Dio e la nostra avversione contro la morte e il peccato, e la unisce con la volontà del Padre: “Non la mia volontà ma la tua”. In questa trasformazione del “no” in “sì”, in questo inserimento della volontà creaturale nella volontà del Padre, Egli trasforma l’umanità e ci redime. E ci invita a entrare in questo suo movimento: uscire dal nostro “no” ed entrare nel “sì” del Figlio. La mia volontà c’è, ma decisiva è la volontà del Padre, perché questa è la verità e l’amore».

Ancora un altro mistero è come questo Dio infinitamente superiore a noi possa però essere chiamato Padre nel linguaggio familiare dei bambini. «I tre testimoni hanno conservato – come appare nella Sacra Scrittura – la parola ebraica o aramaica con la quale il Signore ha parlato al Padre, lo ha chiamato: “Abbà”, padre. Ma questa formula, “Abbà”, è una forma familiare del termine padre, una forma che si usa solo in famiglia, che non si è mai usata nei confronti di Dio. Qui vediamo nell’intimo di Gesù come parla in famiglia, parla veramente come Figlio col Padre. Vediamo il mistero trinitario: il Figlio che parla col Padre e redime l’umanità».
Il mistero del sacerdozio di Gesù fa riferimento alla figura ebraica del Sommo Sacerdote. «La Lettera agli Ebrei ci ha dato una profonda interpretazione di questa preghiera del Signore, di questo dramma del Getsemani. Dice: queste lacrime di Gesù, questa preghiera, queste grida di Gesù, questa angoscia, tutto questo non è semplicemente una concessione alla debolezza della carne, come si potrebbe dire. Proprio così realizza l’incarico del Sommo Sacerdote, perché il Sommo Sacerdote deve portare l’essere umano, con tutti i suoi problemi e le sofferenze, all’altezza di Dio». San Paolo «usa questa parola greca “prosferein”, che è il termine tecnico per quanto deve fare il Sommo Sacerdote per offrire, per portare in alto le sue mani. Proprio in questo dramma del Getsemani, dove sembra che la forza di Dio non sia più presente, Gesù realizza la funzione del Sommo Sacerdote».

Il riferimento al Sommo Sacerdote della tradizione ebraica è importante per comprendere come il mistero della Passione di Gesù sia diverso da qualunque avventura umana, anche quella di rispettabili filosofi martiri della ragione umana come Socrate (470-399 a.C.). Infatti, «se riflettiamo su questo dramma del Getsemani, possiamo anche vedere il grande contrasto tra Gesù con la sua angoscia, con la sua sofferenza, in confronto con il grande filosofo Socrate, che rimane pacifico, senza perturbazione davanti alla morte. E sembra questo l’ideale. Possiamo ammirare questo filosofo, ma la missione di Gesù era un’altra. La sua missione non era questa totale indifferenza e libertà; la sua missione era portare in sé tutta la nostra sofferenza, tutto il dramma umano. E perciò proprio questa umiliazione del Getsemani è essenziale per la missione dell’Uomo-Dio. Egli porta in sé la nostra sofferenza, la nostra povertà, e la trasforma secondo la volontà di Dio. E così apre le porte del cielo, apre il cielo: questa tenda del Santissimo, che finora l’uomo ha chiuso contro Dio, è aperta per questa sua sofferenza e obbedienza».

Il Giovedì Santo abbiamo l’occasione di «comprendere lo stato d’animo con cui Gesù ha vissuto il momento della prova estrema, per cogliere ciò che orientava il suo agire. Il criterio che ha guidato ogni scelta di Gesù durante tutta la sua vita è stata la ferma volontà di amare il Padre, di essere uno col Padre, e di essergli fedele; questa decisione di corrispondere al suo amore lo ha spinto ad abbracciare, in ogni singola circostanza, il progetto del Padre, a fare proprio il disegno di amore affidatogli di ricapitolare ogni cosa in Lui, per ricondurre a Lui ogni cosa». Un’occasione unica, dunque, per «accogliere anche noi nella nostra vita la volontà di Dio, consapevoli che nella volontà di Dio, anche se appare dura, in contrasto con le nostre intenzioni, si trova il nostro vero bene, la via della vita».