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La sfida della Pasqua all'ateismo moderno
Quella degli atei è una categoria vasta e sfuggente, eppure molti di loro si recheranno in chiesa nel giorni di Pasqua. Cosa dire loro, dove li si può incontrare? Al fondo c'è un fatto radicale da cui non si può scappare: Cristo o è risorto o non è risorto.
Attualità
21_04_2011
Quest’anno Pasqua cade un mese dopo l’iniziativa parigina del «Cortile dei gentili», promossa dal Pontificio Consiglio per la Cultura del cardinale Gianfranco Ravasi e cui il Papa si è rivolto con un videomessaggio, che abbiamo a suo tempo commentato su La Bussola Quotidiana. A Pasqua la contrapposizione fra credenti e atei emerge in modo particolarmente evidente: «Dio o c’è o non c’è. Ci sono solo due opzioni», ricordava Benedetto XVI ai giovani di Roma rispondendo alle loro domande il 6 aprile 2006.
E nel libro Gesù di Nazaret. Seconda parte il Papa critica chi cerca le stesse improbabili terze vie a proposito della Resurrezione. Gesù o è risorto o non è risorto. Anche qui «ci sono solo due opzioni». «Se Gesù sia soltanto esistito nel passato o invece esista anche nel presente – ciò dipende dalla risurrezione. Nel “sì” o “no” a questo interrogativo non ci si pronuncia su di un singolo avvenimento accanto ad altri, ma sulla figura di Gesù come tale». «La fede cristiana – si legge nel libro di Benedetto XVI – sta o cade con la verità della testimonianza secondo cui Cristo è risorto dai morti. Se si toglie questo, si può, certo, raccogliere dalla tradizione cristiana ancora una serie di idee degne di nota su Dio e sull’uomo, […] ma la fede cristiana è morta. Gesù in tal caso è una personalità religiosa fallita».
E tuttavia il giorno di Pasqua, per tradizione, si vedono nelle chiese anche alcuni di coloro che rientrano nella vasta e sfuggente categoria degli «atei», su cui il Cortile dei gentili ha voluto interrogarsi.
Ma chi sono gli atei oggi? Se per avventura a Pasqua entrano in chiesa, che cosa possiamo dire per indurli a ripensare la loro non credenza? Anzitutto, secondo la distinzione proposta a Parigi dal cardinale Ravasi, ci sono tre diversi tipi di atei. Esiste l’ateismo filosofico tradizionale, fondato sulle ideologie del XIX e XX secolo, che è sempre più un fenomeno circoscritto a pochi intellettuali. In secondo luogo, «esiste un ateismo ironico e sarcastico» legato a nomi come lo scrittore ed ex-professore di filosofia negli istituti tecnici Michel Onfray in Francia, il divulgatore scientifico Richard Dawkins – quello degli «autobus atei» – in Gran Bretagna e il matematico Piergiorgio Odifreddi in Italia. Sono quelli che il cardinale Ravasi ha chiamato «atei minori», «‘minori’ da un punto di vista intellettuale, ma ‘maggiori’ in termini di diffusione» giornalistica e televisiva. In terzo luogo, secondo il cardinale, c’è «il campo dell’indifferenza, a mio avviso più grave e importante. Interrogarsi sulle domande dei laici […] per gli indifferenti rappresenta l’ultimo dei problemi». Il terzo tipo di ateismo, l’indifferenza, è insieme il meno studiato e il più diffuso.
È evidente che, da un certo punto di vista, alle tre categorie di atei si dovrebbe parlare in modo parzialmente diverso. E tuttavia c’è un filo comune. Sul punto ha svolto al Cortile dei gentili di Parigi considerazioni molto interessanti il filosofo francese Fabrice Hadjadi, di origine ebraica e con un passato maoista, convertito al cattolicesimo nel 1998. Hadjadi ha notato anzitutto che «l’uomo è un animale che si stupisce per il solo fatto di esistere». Non possiamo dire che siamo solo «delle scimmie più evolute», perché nessuna scimmia porta in sé questo stupore e dal punto di vista evolutivo lo stupore rappresenta piuttosto uno svantaggio: «Invece di vivere in santa pace seguendo il suo istinto l’uomo cerca un senso». E tuttavia «essere uomo è anzitutto questo: non solo vivere, ma porsi la domanda sulle ragioni per cui si vive»; e farlo in una «tensione straziante» perché ogni uomo «sa che morirà».
Soprattutto gli atei del terzo tipo, gli indifferenti, si abbandonano alla frenesia della vita contemporanea per non porsi neppure più la domanda sul senso. Se questa non riemergesse mai, ogni dialogo sarebbe impossibile. Ma qualche volta riemerge. Anche oggi, nonostante tutto, almeno in qualche momento affiora il desiderio di «oltrepassare» la dimensione del mero quotidiano. Se intendiamo questo «oltrepassare» come semplice andare altrove, non nasce una spiritualità ma un turismo spirituale, «e il turismo – ha detto Hadjadi – in materia di spiritualità è molto più frequente di quanto non immaginiamo». Ma il turismo non soddisfa. Secondo la parola di Blaise Pascal (1623-1662) «l’uomo va infinitamente al di là dell’uomo», e Dante (1265-1321) parla del desiderio di «trasumanare».
Oggi «trasumanare» acquista il senso di andare al di là dell’umanesimo occidentale, il processo che va dal Rinascimento all’Illuminismo e al marxismo che sta conoscendo una «radicale crisi», così che «i richiami a un nuovo umanesimo, inteso come un ritorno all’illuminismo, possono essere solo segni di cecità». In realtà, secondo Hadjadi, «quando si pretende di fondare l’umanesimo sull’uomo stesso, accade una cosa analoga di quando si pretende di erigere una costruzione senza alcun fondamento esterno: non può che crollare». La risposta alla domanda di senso dell’uomo deve dunque avere un fondamento e un contenuto che «trasumana», che va al di là dell’uomo.
Prima di tornare al discorso di Hadjadi, vale la pena di considerare come Benedetto XVI affronta il tema dell’ateismo. In un discorso ai seminaristi del Seminario Romano Maggiore, del 20 febbraio 2009, il Papa ha tracciato la genesi dell’umanesimo ateo attraverso i tre passaggi della Riforma protestante, dell’Illuminismo e del marxismo. Il desiderio dell’uomo di andare al di là di se stesso è stato concepito in modo rivoluzionario come liberazione dai limiti esterni che impedirebbero all’uomo di essere pienamente se stesso. Martin Lutero (1483-1546) considera la Chiesa, «la Regola monastica, la gerarchia, il Magistero […] come un giogo di schiavitù da cui bisognava liberarsi». All’Illuminismo Dio stesso, «il Creatore […] appariva come una dipendenza dalla quale occorreva liberarsi». Almeno alcune forme d’Illuminismo salvavano una nozione di ordine e di diritto oggettivi: «il marxismo si è presentato come strada verso la libertà» negando anche questa nozione, ha proposto «una ribellione contro l’ordine ed il diritto come se si trattasse di una schiavitù». Ma tutto questo percorso rivoluzionario non ha portato nessuna maggiore libertà. In effetti, secondo questo discorso del Papa, «libertà contro la verità non è libertà», e questa presunta liberazione conduce a un «libertinismo [che] non è libertà, è piuttosto il fallimento della libertà».
È importante notare come per Benedetto XVI il percorso che porta all’ateismo contemporaneo dopo avere tolto di mezzo la Chiesa e Dio finisce per eliminare nella sua terza tappa anche l’ordine e il diritto naturale, cioè la ragione. Di qui, secondo il Pontefice, si deve ripartire. Nel citato colloquio con i giovani del 6 aprile 2006, il Papa spiega che dietro la scelta «Dio o c’è o non c’è» ce n’è un’altra, da cui forse deve iniziare il dialogo con i vari tipi di atei. «Ci sono solo due opzioni. O si riconosce la priorità della ragione, della Ragione creatrice che sta all’inizio di tutto ed è il principio di tutto - la priorità della ragione è anche priorità della libertà – o si sostiene la priorità dell’irrazionale, per cui tutto quanto funziona sulla nostra terra e nella nostra vita sarebbe solo occasionale, marginale, un prodotto irrazionale - la ragione sarebbe un prodotto della irrazionalità. Non si può ultimamente “provare” l’uno o l’altro progetto, ma la grande opzione del Cristianesimo è l’opzione per la razionalità e per la priorità della ragione».
Nell’omelia della Messa celebrata a Ratisbona il 12 settembre 2006 – un po’ offuscata dal grande discorso pronunciato all’Università della città tedesca lo stesso giorno ma importante per il tema dell’ateismo – il Papa è tornato sullo stesso punto, notando come «fin dall'illuminismo, almeno una parte della scienza s'impegna con solerzia a cercare una spiegazione del mondo, in cui Dio diventi superfluo. E così Egli dovrebbe diventare inutile anche per la nostra vita. Ma ogniqualvolta poteva sembrare che ci si fosse quasi riusciti – sempre di nuovo appariva evidente: i conti non tornano! I conti sull'uomo, senza Dio, non tornano, e i conti sul mondo, su tutto l’universo, senza di Lui non tornano.
In fin dei conti, resta l'alternativa: che cosa esiste all'origine? La Ragione creatrice, lo Spirito Creatore che opera tutto e suscita lo sviluppo, o l'Irrazionalità che, priva di ogni ragione, stranamente produce un cosmo ordinato in modo matematico e anche l'uomo, la sua ragione. Questa, però, sarebbe allora soltanto un risultato casuale dell'evoluzione e quindi, in fondo, anche una cosa irragionevole».
Ecco dunque il primo elemento di risposta all’ateismo: credere che all’origine di tutto ci sia la Ragione creativa di Dio è ragionevole, pensare che ci siano l’Irrazionalità e il caos che «stranamente» hanno prodotto un mondo mirabilmente ordinato è irragionevole. Questo ragionamento, nota il Papa nell’omelia di Ratisbona, potrebbe anche convincere qualcuno, e tuttavia rimane «la paura di Dio – un sentimento dal quale, in definitiva, nacque l’ateismo moderno». Questa paura sorge dallo sgomento di fronte alla presenza del male nel mondo. Ancora nel colloquio del 6 aprile 2006 con i giovani il Papa affermava che «il vero problema della fede oggi mi sembra essere il male del mondo: ci si chiede come esso sia compatibile con questa razionalità del Creatore. E qui abbiamo bisogno realmente del Dio che si è fatto carne e che ci mostra come Egli non sia solo una ragione matematica, ma che questa ragione originaria è anche Amore. Se guardiamo alle grandi opzioni, l’opzione cristiana è anche oggi quella più razionale e quella più umana. Per questo possiamo elaborare con fiducia una filosofia, una visione del mondo che sia basata su questa priorità della ragione, su questa fiducia che la Ragione creatrice è amore, e che questo amore è Dio».
Il terzo passaggio del discorso del Papa agli atei è l’argomento per contrasto. Se non si riconosce al principio di tutto una Ragione creatrice, se non si riconoscono regole del gioco comuni a tutti gli uomini saldamente fondate su un Dio autore di queste regole, allora la strada è aperta – come ha detto Benedetto XVI nel suo videomessaggio al convegno di Parigi – perché solo l’utilità e la violenza siano riconosciute «come criterio ultimo». Torna in mente la parola di Fjodor Dostojevskij (1821-1881): «Senza Dio, tutto è possibile»: anche gli orrori delle ideologie del XX secolo, che il grande scrittore russo già presagiva. Il Papa lo ha fatto notare in un Angelus del 9 agosto 2009, in cui ha ricordato due santi morti nei campi di sterminio, santa Edith Stein (1891-1942) e san Massimiliano Kolbe (1894-1941).
Si tratta di un brano che merita di essere ricordato e meditato: «I lager nazisti, come ogni campo di sterminio, possono essere considerati simboli estremi del male, dell’inferno che si apre sulla terra quando l’uomo dimentica Dio e a Lui si sostituisce, usurpandogli il diritto di decidere che cosa è bene e che cosa è male, di dare la vita e la morte. Purtroppo però questo triste fenomeno non è circoscritto ai lager. Essi sono piuttosto la punta culminante di una realtà ampia e diffusa, spesso dai confini sfuggenti. I santi che ho brevemente ricordato ci fanno riflettere sulle profonde divergenze che esistono tra l’umanesimo ateo e l’umanesimo cristiano; un’antitesi che attraversa tutta quanta la storia, ma che alla fine del secondo millennio, con il nichilismo contemporaneo, è giunta ad un punto cruciale, come grandi letterati e pensatori hanno percepito, e come gli avvenimenti hanno ampiamente dimostrato. Da una parte, ci sono filosofie e ideologie, ma sempre più anche modi di pensare e di agire, che esaltano la libertà quale unico principio dell’uomo, in alternativa a Dio, e in tal modo trasformano l’uomo in un dio, ma è un dio sbagliato, che fa dell’arbitrarietà il proprio sistema di comportamento. Dall’altra, abbiamo appunto i santi, che, praticando il Vangelo della carità, rendono ragione della loro speranza; essi mostrano il vero volto di Dio, che è Amore, e, al tempo stesso, il volto autentico dell’uomo, creato a immagine e somiglianza divina».
Con questo brano va messo in relazione il passaggio più commentato dai media del discorso di Hadjadi al Cortile dei gentili di Parigi, un discorso che è stato tenuto all’UNESCO, l’agenzia culturale delle Nazioni Unite. Hadjadi, molto coraggiosamente, ha ricordato che al «trasumanare» di Dante si contrappone il «transumanesimo», espressione coniata dal primo direttore generale dell’UNESCO, il biologo Julian Huxley (1887-1975), fratello del filosofo Aldous Huxley (1894-1963). Per Julian Huxley il transumanesimo era in sostanza l’eugenetica – parola che, dopo che l’avevano usata i nazisti, diventava difficile utilizzare –, cioè il miglioramento della qualità della razza umana attraverso il controllo delle nascite e l’aborto selettivo, inteso a eliminare i più deboli e i malati di mente. Julian Huxley, ha ricordato Hadjadi, scriveva che «una volta che si siano comprese appieno le conseguenze della biologia evolutiva, l’eugenetica diverrà inevitabilmente parte integrante della religione futura […] che potrà in futuro prendere il posto della religione organizzata». «Huxley pretendeva di sostituire le religioni tradizionali con le biotecnologie», proponendo «la redenzione dell’uomo in forza della tecnica».
Il transumanesimo ateo non va «al di là dell’uomo», verso l’alto, ma si ritira «al di qua», verso il basso. La «logica tecnocratica» del nuovo ateismo, di cui l’eugenetica è la più sinistra manifestazione, non rende l’uomo più, ma meno umano. Alla fine, conclude Hadjadi, «la mia domanda è semplice: dobbiamo scegliere come direttore Julian Huxley oppure Dante?». Come ha detto Benedetto XVI nell’omelia della Domenica delle Palme, dobbiamo affidarci a Dio che ci tira verso l’alto o alla superbia atea che «ci tira verso il basso», verso abissi che dopo le tragedie degli ultimi secoli conosciamo ormai fin troppo bene? Al Signore Risorto, al Signore della vita, o alla cultura della morte? Questa è la scelta drammatica che – gradualmente e dolcemente – dovremmo proporre agli atei che a Pasqua varcano incuriositi le porte delle nostre chiese.