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COVID E MEDIA

La ruota gira: il PAT è assolto e Arcuri è indagato

Nel 2020, lo scandalo era costituito dalle Rsa lombarde, accusate di strage, soprattutto il Pio Albergo Trivulzio (PAT). Mentre il commissario straordinario Arcuri era "salvatore della patria". Oggi le parti si sono invertite. L'indagine sul PAT è archiviata. Arcuri è invece indagato per peculato e abuso d'ufficio sull'acquisto delle mascherine cinesi. 

Attualità 21_10_2021
Pio Albergo Trivulzio (PAT)

Un anno fa Domenico Arcuri, all’epoca commissario all’emergenza Covid, era considerato quasi un salvatore della patria, mentre il governatore della Lombardia, Attilio Fontana veniva inseguito dalle procure per le morti sospette nelle Rsa e per lo scandalo dei camici forniti dalla ditta di suo cognato e la sinistra ne invocava le dimissioni. Ma per fortuna la ruota gira e oggi le parti si sono rovesciate. Arcuri, silurato da Mario Draghi che lo ha rimpiazzato con il Generale Francesco Paolo Figliuolo, viene indagato dalla Procura di Roma per un giro milionario di mascherine irregolari acquistate proprio dalla struttura commissariale all’inizio dell’emergenza. Le accuse sono gravissime: peculato e abuso di ufficio. Milioni di dispositivi di protezione fuori norma sarebbero stati comprati con fondi pubblici per rifornire ospedali e strutture impegnate a combattere il Covid; ad avvantaggiarsene sarebbero stati alcuni imprenditori.

Invece la Procura di Milano ha chiesto l’archiviazione delle indagini sui morti per Covid al Pio Albergo Trivulzio durante i mesi più difficili della pandemia, quando una “speculazione indegna” (sono parole del governatore lombardo, Attilio Fontana) ha travolto i vertici della regione più colpita dal Covid. Non ci sono dunque i presupposti per incriminare per epidemia colposa e omicidio colposo i vertici di quella casa di cura, così come di altre Rsa milanesi, a seguito della presunta assenza di dispositivi indispensabili per proteggere personale medico, anziani e ospiti. Le parole dei pm sono molto chiare: «Non è stata acquisita alcuna evidenza di condotte colpose o comunque irregolari - causalmente rilevanti nei singoli decessi - in ordine alla assistenza prestata. Anzi, con riguardo ai singoli casi, neppure sono state accertate evidenze di carenze specifiche, diverse dalle criticità generali... riguardo le misure protettive o di contenimento che possano con verosimiglianza aver inciso sul contagio dei singoli soggetti». Inoltre, «Lo standard probatorio richiesto al riguardo richiederebbe la dimostrazione precisa del nesso causale tra il singolo evento dannoso e una specifica condotta riprovevole: il che pare senz'altro da escludere sulle base delle evidenze acquisite». Manca in sostanza, secondo i Pm, la prova del "nesso causale" tra morti e condotte nella Rsa.

Eppure nessuno chiederà scusa a chi ha governato la Regione Lombardia in quei mesi difficili, non solo Fontana, ma anche l’assessore al welfare Giulio Gallera, di Forza Italia (poi sostituito da Letizia Moratti), che è diventato il capro espiatorio di una gestione un po’ approssimativa su alcuni aspetti, ma legata alla drammaticità di un'emergenza che nessuno si aspettava e che sulla Lombardia si è abbattuta come uno tsunami. Ora invece è proprio Arcuri, già interrogato, a invocare lo stato di necessità, cioè a voler giustificare l’operazione mascherine come scelta obbligata e dettata dalle contingenze, cioè dall’urgenza di averne a disposizione un gran numero per fronteggiare la situazione dei mesi più dolorosi della pandemia.

Ma allora se il fine giustifica i mezzi non si dovrebbe neppure crocifiggere lo stesso Fontana per la questione camici. Anche per avere in fretta i camici per medici e infermieri il governatore lombardo si è spontaneamente rivolto al cognato, che poi avrebbe fatto una donazione per aiutare la comunità lombarda. Eppure quel gesto, figlio di leggerezza e forse anche ingenuità, gli è costato una vera e propria bufera mediatico-giudiziaria.

Il caso Arcuri è ben più grave e, a prescindere dalle responsabilità dirette dell’ex commissario, getta una luce fosca sulla gestione della prima fase dell’emergenza pandemica. La Guardia di Finanza, su disposizione della Procura di Roma, ha sequestrato 800 milioni di mascherine ritenute “non conformi”. Dagli esami eseguiti dall'Agenzia delle dogane e da consulenti degli inquirenti, «addirittura alcune forniture sono state giudicate pericolose per la salute». I dispositivi non hanno passato i principali test di sicurezza, dunque, secondo i magistrati, «appare necessario procedere al sequestro probatorio di tutte le mascherine chirurgiche e di tutti i dispostivi di protezione attualmente giacenti».

Le indagini riguardano gli affidamenti, per un valore complessivo di 1,25 miliardi di euro, effettuati dall'allora commissario straordinario Arcuri a favore di tre consorzi cinesi per l'acquisto di mascherine effettuato con l'intermediazione di alcune imprese italiane, che, a fronte di tale attività, avrebbero percepito commissioni per decine di milioni di euro dai consorzi cinesi risultati affidatari dei contratti. Secondo i magistrati che stanno indagando, «L’emergenza ha giustificato pagamenti di dispositivi di protezione, della qualità dei quali nulla ancora si sapeva, col rischio di acquistarne di inutili».

Ce n’è abbastanza per indignarsi. Non solo per le speculazioni fatte alle spalle dei cittadini in un momento così drammatico come quello della prima parte della pandemia, ma anche per l’ennesima applicazione del metodo dei due pesi e delle due misure alla gestione nazionale del Covid e a quella della Regione Lombardia. Quest’ultima esce rivalutata, mentre la prima mostra nitidamente la sua inaffidabilità. Ma i media che hanno massacrato per oltre un anno il modello lombardo se ne guarderanno bene dall’ammetterlo.