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GUERRA CULTURALE

La rivoluzione woke arretra anche nelle università americane

Assunzioni sospese, corsi cancellati, eventi annullati: nelle università americane spariscono tutti i programmi Dei, per paura di incorrere nella cancellazione dei fondi federali da parte dell'amministrazione Trump. 

Esteri 15_03_2025
Ron DeSantis, il primo a lanciare la controrivoluzione (La Presse)

Memori dell’esperienza della prima amministrazione Trump, contrastata, sin dai primi giorni, da vaste e violente manifestazioni di dissenso, ci si sarebbe attesi uno scenario simile anche all’inizio della seconda. Soprattutto le università, epicentro della rivoluzione woke (l’antirazzismo del movimento Black Lives Matter più il femmismo radicale del movimento MeToo) sarebbero diventate le principali roccaforti della “resistenza”. Non sta accadendo nulla di simile, in ormai due mesi di amministrazione repubblicana, nonostante la frenetica attività di Trump. Anzi, le istituzioni più woke, cioè le cattedre, i corsi e i dipartimenti Dei (Diversità Equità Inclusione) stanno crollando rapidamente come castelli di carte.

Dopo aver negato 400 milioni di dollari federali alla Columbia University, per non aver difeso studenti e docenti ebrei durante le manifestazioni pro-Palestina dello scorso anno accademico, le altre università stanno mettendosi in regola da sole. Il timore è sempre quello di perdere fondi pubblici. Spariscono i quadri con i militanti e gli “eroi” del movimento Black Lives Matter. Iniziative “inclusive” vengono cancellate. Bandiere arcobaleno della causa Lgbt vengono ammainate. E anche il linguaggio sta cambiando molto rapidamente. Parole d’ordine come “intersezionale” e, appunto, “inclusivo”, stanno diventando sconvenienti.

La scorsa settimana l’Università della Virginia ha votato per sciogliere il suo dipartimento Dei entro il quale è allignato il peggior terzomondismo anti-occidentale. «Il Dei è finito all'Università della Virginia», ha dichiarato il governatore Glenn Youngkin.

L’Università della Carolina del Nord non obbligherà più gli studenti a seguire corsi Dei considerati fondamentali per completare il piano di studi. Il rischio di mettere a repentaglio i finanziamenti federali per la ricerca è ora «semplicemente troppo grande per rimandare l'azione» scrive Andrew Tripp, consulente legale generale. Cornell, Stanford e Harvard hanno annunciato il congelamento delle assunzioni di personale e docenti, citando «sostanziali incertezze finanziarie dovute ai rapidi cambiamenti delle politiche federali».

Un effetto domino, insomma, anticipato dalla Florida, dove il governatore DeSantis sta già da tempo eliminando i programmi Dei dalle università e dalle scuole pubbliche che dipendono dal suo Stato. Nell’Università della Florida si sta compiendo una vera e propria controrivoluzione, nei programmi, nei dipartimenti, nelle autorità. La disposizione del governatore è chiara: tornare a valorizzare la civiltà occidentale giudaico-cristiana e la storia americana, dopo quasi un ventennio di auto-demonizzazione.

C’è chi addirittura sta diventando più realista del re, come l’amministrazione dell’Università dell’Ohio che ha cancellato il raduno degli ex studenti neri laureati. Il giorno dopo la stessa università ha cancellato la sua giornata della celebrazione della donna, in cui si esaltavano i successi e i primati femminili. Fino a quest’anno erano considerati eventi non controversi, neppure particolarmente rivoluzionari, ma per timore di passare sotto la scure della cancellazione dei programmi Dei, le autorità accademiche hanno preferito comunque sbarazzarsene.

E se la reazione alla rivoluzione woke portasse di nuovo al razzismo? Non è da escludere, per il futuro. E qui si vedrà se la società americana avrà veramente sviluppato gli anticorpi contro il peggiore dei pregiudizi. Ma nel presente assistiamo semplicemente a una rivoluzione che sta cascando in pezzi, con una rapidità sorprendente. Dopo le Big Tech (Elon Musk, Jeff Bezos, Mark Zuckerberg), Hollywood (si veda il flop delle produzioni più woke agli ultimi Oscar) e le grandi aziende, anche le università, dunque il luogo di nascita della rivoluzione woke, stanno dando il via al riflusso. E la velocità con cui tutto ciò sta avvenendo, oltre all’assenza di ogni resistenza visibile, non è tanto il segnale della nascita di un nuovo regime, stavolta conservatore. Semmai è il segno che della rivoluzione woke era sostenuta solo da fondi pubblici. Infatti non viene applicata alcuna censura, alcun divieto, è solo per la paura di perdere fondi pubblici federali (neanche statali) che le università fanno marcia indietro. Ed evidentemente, se basta così poco, è perché della rivoluzione woke non ne poteva più nessuno, nemmeno nelle università.

A nessuno piace essere epurato perché usa i pronomi sbagliati quando parla a un uomo o a una donna che non si sentono tali, per un gesto sbagliato, per una parola sbagliata, per un abbigliamento che dalle minoranze può essere considerato “appropriazione culturale”, per un costume di carnevale (magari indossato anni prima) ritenuto troppo politicamente scorretto. A nessuno piace veder bandire dai corsi e dalle biblioteche libri classici della letteratura o lo studio di intere culture, per rispettare il percorso di “decolonizzazione”. A nessuno piace veder vandalizzate o abbattute le statue di Cristoforo Colombo e persino di Jefferson e di Lincoln (che pure liberò gli schiavi) perché rappresentativi del “privilegio bianco”. A nessuno, soprattutto, piace vedersi negare la parola, o vietare l’ingresso in aula, solo per aver votato dalla parte sbagliata, o solo per aver tenuto conversazioni, anche private, considerate “offensive” nei confronti di gay, donne o minoranze. A nessuno piace veder promuovere, laureare o assumere studenti a seconda del loro sesso, genere o colore della pelle, a prescindere dal merito. Perché tutto questo, nella pratica è (o è stata) la rivoluzione woke.