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LO SCENEGGIATO

La Rivoluzione Francese senza censure

Su France 3 va in onda la prima delle due puntate di "Une femme dans la Révolution" ambientato durante la Rivoluzione Francese. Il regista non intendeva essere critico, ma involontariamente mostra uno scenario carico di terrore.

Cultura 23_12_2013
Une femme dans la Révolution

Sabato 21 e domenica 22 dicembre, il canale pubblico francese France 3 ha tramesso le due puntate (Le peuple entre en scène e La Bruit e la Fureur) di cui si compone lo sceneggiato Une femme dans la Révolution. E' diretto dal regista Jean-Daniel Verhaeghe (un habitué dei film per la tivù) per la Septembre Productions.

Verhaeghe non ha intenzione di criticare la Rivoluzione Francese (argomento dello sceneggiato), ma lo stesso ci riesce. La giovane Manon (Gaëlle Bona), in rotta con i genitori “tradizionalisti”, lascia la natia Vandea in cerca di riscatto alla vigilia degli Stati Generali. Sulla corriera conosce Benjamin (Cyril Descours), deputato del Terzo Stato per la Vandea. Scoppia la rivoluzione, a Parigi Manon si arrabatta, resiste allo stalking sessuale di troppi uomini (in genere aristocratici), s’innamora di Benjamin e gli partorisce il piccolo Denis. Nel massacro dei Foglianti al Campo di Marte del 17 luglio 1791 Denis muore però tragicamente: Manon, che mai ha avuto vita facile, scopre che il mondo è ancora più crudele, che la realtà è dura e che la rivoluzione non sono rose e fiori. Da apolitica che era, si appassiona al fianco del suo Benjamin, giacobino convinto. Fonda un giornale femminista, anima un “club dei due sessi” allestito in una chiesa occupata e si oppone al maschilismo rivoluzionario.

Intanto cresce l’orrore, trasformato da Maximilien Robepierre (Alex Lutz) in terrore. Manon ne è scioccata. Benjamin la lascia per rientrare in Vandea su ordine della Convenzione. Quando anche lei vi torna per sfuggire agli ex amici giacobini, s’imbatte nel bel Joseph (Julien Beramis), liberto nero della Martinica. A Parigi si rifà una vita con lui. Ma la Francia precipita, Manon rischia ancora la pelle, Joseph viene arrestato e solo la caduta di Robespierre, il 28 luglio 1794, riapre i giochi. Anche per Manon? Chi lo sa; rimpatriata in Vandea, la femminista di ieri, da oggi farà la mamma crescendo il piccolo meticcio figlio del suo Joseph di cui però il suo Joseph, che insegue “la libertà”, non sa nulla. Una panoramica della ruvida costa della Vandea sottolineato dallo struggimento di pive bretoni cala il sipario all’insegna di un “chi vivrà vedrà” per il quale dire “speranza” è davvero troppo.

Qual è lo spunto di questo sceneggiato che, con molto Danton (1983) di Andrzej Wajda negli occhi ‒ i personaggi di Robespierre, Georges Danton (Grégory Gadebois) e Camille Desmoulins (Alexis Loret) ricordano dappresso quelli tratteggiati dal regista polacco ‒, gira attorno all’idea di una rivoluzione monca, avara verso donne e neri? Anzitutto che, pure calcando il cliché stantio e falso del 1789 puro tradito dal 1793 terroristico, tutta la Rivoluzione Francese ne esce a pezzi. La presunta cesura di una “rivoluzione buona” che degenera in una “cattiva” non c’è; gli eventi si susseguono coerenti, concatenati tra cause ed effetti inscindibili. E quando il Terrore impazza, sembra solo ieri che si erano proclamati quegl’“immortali princìpi” che comunque ispirano sempre i terroristi.

La timeline storica reale seguita da Verhaeghe provoca così uno spettacolo shock che non può che generare in disgusto. Gli avversari di Robespierre dentro il suo Comitato di Salute Pubblica che ne causano la rovina sono (come fu) persin peggio di lui. Per i massacri sanculotti del settembre 1792 nella carceri parigine, con il famoso sgozzamento (fra i molti) anche della principessa di Lamballe, si freme. La Guerra di Vandea, sempre presente sottotraccia, è un eccidio ingiustificato, e in una scena Robespierre parla apertis verbis di volontà di distruzione totale della regione, come oramai acclarato dalla storiografia. Se i nobili sono sempre (insopportabilmente) lascivi o al massimo cicisbei, le “sezioni dei citoyen” sono criminali senza scuse e i loro capi degl’invasati. L’intento scristianizzatore della rivoluzione è palese e il culto robespierrista dell’Essere Supremo un delirio folle. Mettono i brividi le lente carrette della morte che menano al patibolo donne avvolte nel drappo rosso dei parricidi per avere osato levar la mano contro i “padri luminosi” della République (episodio vero: Cécile Renault morì così in Place de la Nation il 17 giugno 1794 giacché sospettata di attentare a Robespierre), mentre il ghigliottinamento della dignitosissima filomonarchica Charlotte Corday (Hélène Stadnicki), che aveva ucciso il protocomunista Jean-Paul Marat, è una delle scene, brevissima, più colma di pietas. Don Frédéric, il parroco “refrattario” di Manon (splendido in talare e colubrina), è l’unica figura sempre positiva, mentre Jean-Baptiste Carrier (Thierry Gibault), il boia di Nantes che inventò le noyades per sopprimere nella Loira vandeani, preti e suore, spesso nudi, è come fu, un criminale sanguinario.

Oltre ad alcune immagini assieme sublimi e dolorose della dolce Francia, quel che di fondamentale accade con Une femme dans la Révolution è che per serendipità un prodotto francese sbatte tutta la mostruosità della Rivoluzione Francese nella prima serata di un canale pubblico francese. Non poco.