La rischiosa normalizzazione dell'Egitto
Il 26 e 27 maggio gli egiziani scegleiranno il presidente. Se l'esito appare scontato - con la vittoria del popolarissmo al-Sisi - altrettanto non lo è la direzione che prenderà il paese. La maggiore incognita è l'accordo tra al-Sisi e i salafiti.
Alla vigilia delle elezioni presidenziali che si terranno il 26 e il 27 maggio prossimi, lo scenario politico egiziano non manca di offrire spunti di riflessione. I protagonisti del contendere sono Abd al-Fattah al-Sisi, che, oltre a godere di una grande popolarità in Egitto e a essere il grande favorito, vanta già il 94% dei voti degli egiziani all’estero, e Hamdin al-Sabahi che era arrivato terzo alle elezioni presidenziali del 2012.
Ma tutti sanno che i veri protagonisti nei prossimi giorni saranno gli egiziani. Uno dei dati più attesi è senza dubbio quello dell’affluenza alle urne in quanto farà capire se al-Sisi avrà un effettivo sostegno popolare che gli consentirà di guidare il paese con serenità e forza.
Nonostante la vittoria dell’ex militare sia data per scontata è comunque interessante ribadire chi voterà, e per chi voterà, e chi boicotterà il processo elettorale. Al-Sisi ha ricevuto il sostegno ufficiale delle famiglie Nasser e Sadat, del partito socialista al-Tagammu’, del nuovo Wafd, del partito degli Egiziani Liberi, della minoranza copta e, ultimo ma non meno importante e interessante, l’appoggio ufficiale del Partito salafita al-Nur. Al-Sabahi, a sua volta, gode dell’appoggio ufficiale di alcuni membri del movimento popolare al-Tamarrod, del Partito al-Dustur e della Fratellanza senza violenza. Invitano invece al boicottaggio i Fratelli musulmani, grandi esclusi dai giochi, e il movimento 6 aprile, messo al bando lo scorso aprile.
Una prima riflessione riguarda il blocco dei cosiddetti “rivoluzionari” che, come nel caso del movimento 6 aprile, hanno deciso per il boicottaggio schierandosi ancora una volta, direttamente o indirettamente, al fianco dei Fratelli musulmani. Lo avevano già fatto in occasione delle presidenziali del 2012, quando pur di non votare Ahmad Shafiq, troppo legato al passato recente, hanno preferito accordare la propria fiducia a Mohammed Morsi. I “rivoluzionari” hanno altresì dimostrato di non riuscire più a mobilitare le folle, nemmeno quando Ahmad Maher e Mohammed Adel, fondatori del Movimento 6 aprile, sono stati arrestati. Questo significa che, come ha sottolineato l’analista politico egiziano Said Sadek, “una terza rivoluzione è un’illusione”, tanto che oggi piazza Tahrir al Cairo non è più animata né da islamisti né da rivoluzionari, bensì è controllata dall’esercito e dalla polizia.
La sensazione è che la popolazione desideri solo la tanto agognata stabilità politica ed economica, anche se si tratta di fare un passo indietro rispetto all’utopia democratica dell’immediato post-Mubarak. Una scelta pragmatica, e oserei dire matura, a favore di una via di mezzo che sta cercando di eliminare il terrorismo interno non solo nel Sinai, ma ovunque nel paese. Una scelta pragmatica a favore di chi ha messo al bando i Fratelli musulmani che non solo non hanno saputo cogliere l’occasione per dimostrare agli egiziani di sapere governare per il bene del popolo intero, ma che dopo l’allontanamento di Morsi hanno messo a ferro e a fuoco l’Egitto.
Se i “rivoluzionari” hanno dimostrato le proprie debolezze e carenze, non va trascurata la natura composita del fronte che appoggia al-Sisi. La presenza del partito salafita al-Nur non può che destare preoccupazione. In primo luogo perché si tratta di una compagine politico-religiosa molto radicata sul terreno che, alle prime elezioni parlamentari di fine 2011-inizio 2012, è risultata seconda (con il 27.8% dei voti) dopo i Fratelli musulmani (con il 37.5%). Di fatto i salafiti hanno rappresentato la vera sorpresa del post-rivoluzione. Se i Fratelli musulmani rappresentavano l’islamismo pragmatico, i salafiti sono gli islamisti autentici e schietti. È evidente che il loro schierarsi a fianco del vincitore preannunciato non sarà privo di un tornaconto politico. Hanno già dichiarato, attraverso il loro vice-presidente Sayyid Khalifa, di avere preso accordi con al-Sisi circa il futuro dei partiti islamici: «Al-Sisi ha confermato che rispetterà la legge e la costituzione che garantiscono al partito al-Nur e agli altri partiti islamici di continuare a operare nella vita politica».
Al-Sisi è un musulmano praticante e, anche per questa ragione, si confà ai requisiti di un buon presidente per il fronte salafita. Non solo, ma, in un’intervista pubblicata lo scorso 24 maggio dal quotidiano arabo internazionale Asharq al-Awsat, al-Sisi ha dichiarato che la prima visita ufficiale che compirà sarà in Arabia Saudita per ringraziare re Abd Allah per il sostegno dato al popolo egiziano e perché combatte la stessa battaglia, sottointendendo contro i Fratelli musulmani. Nella stessa intervista ha dichiarato che per combattere il terrorismo interno sarà necessaria una “riforma del discorso religioso che danneggia l’islam” attraverso la diffusione a livello scolastico dell’islam “moderato”.
Ebbene, qui risiede il punto critico del futuro politico di al-Sisi, ma soprattutto del futuro dell’Egitto. Al-Sisi dovrà ben presto capire da che parte vuole stare: se dalla parte degli egiziani o dalla parte degli interessi economici e religiosi, rappresentati dall’Arabia Saudita e dai salafiti. L’Arabia Saudita, è risaputo, concepisce il terrorismo come tutto ciò che possa minare l’ordine interno, quindi terroristi sono i Fratelli musulmani e terrorista è Raif Badawi, intellettuale liberale che critica il wahhabismo. Ma l’Egitto non è l’Arabia Saudita e, come affermava nel 1929 l’intellettuale egiziano Taha Husayn nel suo saggio Il futuro della cultura in Egitto, ha “una vocazione mediterranea”, una vocazione innata, fisiologica che non è certamente quella beduina e tribale che ha dato vita al wahhabismo. La moderazione non è certo la caratteristica né dell’islam saudita né del salafismo e se l’università islamica di al-Azhar, che si sta liberando dei Fratelli musulmani, verrà invasa, in parte già lo è, dai teologi conservatori, allora al-Sisi e gli egiziani che lo avranno eletto dovrà pagarne le amare conseguenze.
A tutto questo si aggiunge la necessità della ripresa economica, della ripresa del turismo, che dipendono in gran parte dalla sicurezza interna. Come ha sottolineato Refaat Said, uno dei leader del partito Tagammu, al-Sisi dovrà prestare molta attenzione a mantenere le promesse fatte al popolo egiziano. Said, a riguardo, cita la poesia “Carta di identità” del celebre poeta palestinese Mahmud Darwish: “Allora!/Scrivi… in cima alla prima pagina/ io non odio le persone/ non attacco nessuno/ma se ho fame/mangio la carne dell’usurpatore/Attento/Attento/Alla mia fame/e alla mia rabbia!” Said, grande nemico dei Fratelli musulmani e sostenitore di al-Sisi, ha perfettamente ragione: non è più tempo né di illusioni né di promesse, non è più tempo di equilibrismi pragmatici, è giunta l’ora di dare agli egiziani pane materiale e spirituale. Se, come ci si attende, il 5 giugno al-Sisi verrà dichiarato presidente della Repubblica araba d’Egitto, dovrà dimostrare coerenza, onestà e di essere presidente degli egiziani che, se sono felici di essersi liberati della Fratellanza musulmana, non vogliono di certo cadere nella brace dell’islam di stampo saudita.