La regalità di Cristo annunciata sul «Financial Times»
Le tasse, la Borsa, il diritto naturale, l'impegno politico dei cattolici. L'articolo che Benedetto XVI ha pubblicato il 20 dicembre sul Financial Times presenta, in un modo adeguato ai particolari interlocutori, la dottrina della regalità sociale di Gesù Cristo.
L'articolo che Benedetto XVI ha pubblicato il 20 dicembre sul Financial Times - un modo nuovo di comunicare, e di raggiungere lettori di solito interessati quasi esclusivamente all'economia - presenta, in un modo adeguato ai particolari interlocutori, la dottrina della regalità sociale di Gesù Cristo.
In modo molto appropriato, il Papa parte dalle tasse. Anche a Gesù, ricorda, «fu chiesto ciò che pensava sul pagamento delle tasse». Chi glielo chiedeva - come talora chi chiede oggi alla Chiesa di schierarsi nelle grandi contese politiche, che hanno sempre un lato economico - non era in buona fede. «Quelli che lo interrogavano, ovviamente, volevano tendergli una trappola. Volevano costringerlo a prendere posizione nel dibattito politico infuocato sulla dominazione romana nella terra di Israele. E tuttavia c?era in gioco ancora di più: se Gesù era realmente il Messia atteso, allora sicuramente si sarebbe opposto ai dominatori romani. Pertanto la domanda era calcolata per smascherarlo o come una minaccia per il regime o come un impostore».
Come sappiamo, Gesù risponde: «Rendi a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio». Ma la risposta va capita bene. Gesù non dice che il problema delle tasse non gli interessa, o che è estraneo alla sua missione che sarebbe puramente spirituale. «La risposta di Gesù porta abilmente la questione ad un livello superiore». Egli non nega affatto che la sua regalità e il suo dominio si estendono a tutte le realtà che interessano l'uomo, dunque anche all'economia. Solo che «il regno che Gesù veniva ad instaurare era di una dimensione assolutamente superiore» rispetto all'impero romano, alle sue tasse e ai suoi esattori, e anche rispetto a quegli ebrei anti-romani che le tasse non volevano pagarle.
La stessa nascita del Signore - il Pontefice riprende qui un tema del suo libro «L'infanzia di Gesù» - testimonia questa sua regalità superiore. Gesù nasce «durante un "censimento del mondo intero", voluto da Cesare Augusto [63 a.C.-14 d.C.], l'imperatore famoso per aver portato la Pax Romana in tutte le terre sottoposte al dominio romano». Il Signore non viene a contestare i vantaggi della Pax Romana, che esistevano, né a contestare ai Romani i suoi limiti, anch'essi presenti. Ma «questo bambino, nato in un oscuro e distante angolo dell'impero, stava per offrire al mondo una pace molto più grande, veramente universale nei suoi scopi e trascendente ogni limite di spazio e di tempo».
Quanto agli Ebrei, «Gesù ci viene presentato come erede del re Davide, ma la liberazione che egli portò alla propria gente non riguardava il tenere a bada eserciti nemici; si trattava, invece, di vincere per sempre il peccato e la morte». La sua regalità è erede di quella davidica, ma è infinitamente più grande.
Come Gesù di fronte ai suoi capziosi interlocutori, anche il Papa non dice ai lettori del Financial Times se le tasse di oggi sono giuste. Vola più in alto, e ci assicura che una cosa sappiamo con certezza: che se il mondo si rifiuta di riconoscere «il destino trascendente di ogni essere umano», se si chiude per principio alla fede, allora le sue misure anche nel campo della politica e dell'economia potranno essere più o meno tecnicamente adeguate, ma non saranno mai una piena e vera realizzazione della giustizia.
Il Pontefice non propone nessuna evasione in una dimensione puramente spirituale. È precisamente il contrario: non ci sono campi, afferma, che sfuggono alla regalità di Gesù Cristo e dunque i cristiani si sforzano di portare il Vangelo «negli affari del mondo, sia che ciò avvenga nel Parlamento o nella Borsa». Sì, cari lettori del Financial Times: Benedetto XVI vi assicura che Cristo regna anche sulla Borsa. E che i cristiani non si vergognano del loro «coinvolgimento nella politica e nell'economia», che considerano doveroso e necessario.
Solo che questo coinvolgimento «trascende ogni forma di ideologia»: non è ideologico, perché la regalità di Cristo non è un'ideologia. Ecco allora lo specifico dell'impegno politico ed economico dei cristiani: «I cristiani combattono la povertà perché riconoscono la dignità suprema di ogni essere umano, creato a immagine di Dio e destinato alla vita eterna. I cristiani operano per una condivisione equa delle risorse della terra perché sono convinti che, quali amministratori della creazione di Dio, noi abbiamo il dovere di prenderci cura dei più deboli e dei più vulnerabili. I cristiani si oppongono all'avidità e allo sfruttamento nel convincimento che la generosità e un amore dimentico di sé, insegnati e vissuti da Gesù di Nazareth, sono la via che conduce alla pienezza della vita». La bussola dell'impegno dei cristiani è sempre la signoria di Gesù sul cosmo e su tutta la storia.
Ma il Papa sa bene che tra i lettori del Financial Times ci sono tanti non cristiani e non credenti. A costoro Benedetto XVI ricorda che esistono «fini condivisi» su cui tutti gli «uomini di buona volontà» possono convenire. Nel secondo volume del suo «Gesù di Nazaret» il Pontefice aveva spiegato che lo strumento attraverso cui Gesù regna sulla storia è il diritto naturale, che ogni uomo può riconoscere con la sua ragione. Il non credente chiamerà ordine morale e bene comune quello che per il cristiano è il frutto della regalità sociale di Gesù Cristo. Ma sui «fini condivisi» «una grande e fruttuosa collaborazione fra i cristiani e gli altri» è possibile.
Con una condizione: gli «altri» devono rispettare la libertà religiosa dei cristiani, che «danno a Cesare soltanto quello che è di Cesare, ma non ciò che appartiene a Dio. Talvolta lungo la storia i cristiani non hanno potuto accondiscendere alle richieste fatte da Cesare. Dal culto dell'imperatore dell'antica Roma ai regimi totalitari del secolo appena trascorso, Cesare ha cercato di prendere il posto di Dio». Questo i cristiani non possono accettarlo.
E i non cristiani e i non credenti dovrebbero capire che, difendendo la loro libertà di non inchinarsi allo Stato che usurpa i diritti di Dio, i cristiani difendono in realtà i diritti di tutti. «Quando i cristiani rifiutano di inchinarsi davanti ai falsi dèi proposti nei nostri tempi non è perché hanno una visione antiquata del mondo. Al contrario, ciò avviene perché sono liberi dai legami dell'ideologia e animati da una visione così nobile del destino umano, che non possono accettare compromessi con nulla che lo possa insidiare».
Il tempo in cui un imperatore poteva presentare il suo potere come così grande da essere confuso con il potere di Dio è finito in una data e in un luogo preciso: il giorno della nascita di Gesù, a Betlemme. «In Italia, molte scene di presepi sono adornate di rovine degli antichi edifici romani sullo sfondo. Ciò dimostra che la nascita del bambino Gesù segna la fine dell'antico ordine, il mondo pagano, nel quale le rivendicazioni di Cesare apparivano impossibili da sfidare. Adesso vi è un nuovo re». È Cristo, il re di pace, che ieri come oggi «porta speranza a quanti sono vulnerabili nelle mutevoli fortune di un mondo precario. Dalla mangiatoia, Cristo ci chiama a vivere da cittadini del suo regno celeste, un regno che ogni persona di buona volontà può aiutare a costruire qui sulla terra».
Il 20 dicembre 2012 rimarrà nella storia del Financial Times come il giorno in cui i suoi lettori hanno trovato sul loro giornale la notizia più importante di tutte: la buona notizia della regalità di Gesù Cristo. Una regalità che non assomiglia a quelle «di» questo mondo, ma che si estende «su» questo mondo, annunciando la giustizia anche, come scrive il Papa, nei Parlamenti e nelle Borse - e perfino sui giornali finanziari.