La rassegnazione occidentale di fronte alla Russia
Di fronte alla malcelata aggressione russa dell'Ucraina, l'Ue e la Nato non si sono mosse e sono state percepite come deboli. Quando hanno incominciato a muoversi, lo hanno fatto molto in ritardo. Ora Mosca è in grado di imporre le sue condizioni: lo smembramento dell'Ucraina. Le conseguenze, anche per l'Europa occidentale saranno molto gravi.
La riunione a Newport del Consiglio ministeriale della Nato, con l’intervento di molti capi di stato e di governo e all’ordine del giorno gli inquietanti,minacciosi, sviluppi della situazione internazionale con le guerre aperte dal fondamentalismo islamico in Medio Oriente e dal nazionalismo russo in Ucraina, è certamente la più importante dalla caduta a New York delle “torri gemelle” e a Mosca del monolitico regime sovietico. La concomitanza delle due emergenze hanno reso più drammatici l‘esame della loro evoluzione e soprattutto del “come” fronteggiarle.
Purtroppo tutto questo avviene in ritardo, se non in gran ritardo, a causa di sbagliate valutazioni, delle quali portano la responsabilità i governi del mondo occidentale certo, e in modo speciale i loro servizi di intelligence, le loro diplomazie, i loro consulenti storici. Appaiono oggi evidenti le disastrose conseguenze delle guerre in Iraq e Afghanistan prima, in Libia e Siria poi, che con l’abbattimento o i tentativi di rovesciamento di regimi personali consolidatisi negli anni, hanno da un canto favorito l’affermazione di forze estremiste islamiche e la loro propagazione, anche in Africa; e dall’altro hanno richiesto un ingente sforzo finanziario delle grandi nazioni occidentali nello stesso tempo in cui venivano aggredite dalla speculazione finanziaria interna e dall’inarrestabile ascesa industriale e commerciale della Cina.
In più l’Unione Europa si è illusa che il partenariato economico (e strategico nel G8) con la Russia fosse così saldo e ben proiettato nel futuro da non prendere in considerazione i rischi politici né della dipendenza energetica che andava stabilendo; né dell’imponente potenziamento delle forze militari russe (mentre indeboliva le proprie, riducendo effettivi, mezzi e relative voci in bilancio); né della restaurazione ideologica, culturale e propagandistica intrapresa da Putin dei valori nazionali della Russia dell’epoca imperiale zarista e dell’Unione Sovietica comunista, in una visione di continuità e attualità.
Così l’Unione Europea ha parlato soltanto di una “crisi”, come di un affare interno, che l’Ucraina doveva risolvere da sola. Disattendendo gli avvertimenti di alcuni suoi membri – i paesi baltici e la Polonia – con le esperienze maturate in secolari relazioni di vicinato con Mosca – e presuntuosamente incapace di valutare la portata, e le conseguenze, del pericolosissimo conflitto che era insorto tra Kiev e Mosca. Fin dall’apparizione in Crimea di “omini verdi” (dalla nascosta identificazione e ostentatamente ben armati) venuti a sostenere la “voglia di Russia” della popolazione russofona e l’orchestrata, velocissima, annessione della penisola alla “madre patria”; e poi, in previsione dell’annessione della Novorossiya, con l’ invasione delle regioni orientali del Donbass da parte degli stessi miliziani, ai quali si sono uniti altri combattenti sia russi, camuffatisi per stranieri, sia provenienti da altre repubbliche ex sovietiche. Tutti ben armati ed inoltre sostenuti da decine di migliaia di militari russi schierati lungo il confine.
Finalmente – ma ci son voluti il trauma dell’abbattimento dell’aereo di linea malese sul territorio controllato dai cosiddetti filo-russi, e la prepotenza nel far attraversare il confine ad una colonna di sospetti aiuti umanitari – gli occhi si sono aperti. Quando però il ritardo, accompagnato da indugi e perplessità nel reagire alle aperte violazioni della sovranità dell’Ucraina, era stato archiviato a Mosca come un segno della debolezza degli occidentali, e degli europei in particolare, tanto da consentirsi qualsiasi altra prevaricazione. Putin ha orgogliosamente impennato la voce rappresentando senza remore la potenza atomica della sua nazione dinanzi a ventilate più dure sanzioni economiche e al prospettato rafforzamento del dispositivo Nato nei paesi di confine.
Ma quel che ha avvelenato e rischia di mandare in frantumi dei rapporti già deteriorati è la mistificazione della verità che ha prodotto non solo l’improntitudine di Putin nel negare le evidenze ma soprattutto ha fomentato, e continua ad alimentare, una campagna di odio dalle conseguenze funeste. Fin dall’indomani della rivolta del Maidan e della fuga da Kiev del presidente del regime filo-russo Viktor Yanukovich. Così – tanto per citare alcuni esempi – ancor oggi egli insiste nel sostenere che l’Ucraina è nelle mani di un regime neonazista e pretende di essere creduto quando afferma che la Russia non è parte in causa nel conflitto. Così l’apparato della disinformazione – evoco un solo recente esempio – giunge a presentare l’attacco di soldati ucraini il 6 agosto presso Dimitrovka (regione di Donetsk) a un convoglio scortato da miliziani ribelli come il deliberato “assassinio” del fotoreporter russo Andrei Stenin, dell’agenzia “Ria Novosti”, che ne faceva parte ( accompagnava un gruppo di profughi), paragonato alla decapitazione in Iraq del giornalista americano, e definendo l’Ucraina “il luogo più pericoloso al mondo per i giornalisti”. Disinformazione che accredita come prossima una nuova rivoluzione nel Maidan per abbattere il presidente Piotr Poroshenko, “capo della cricca che si è stabilita a Kiev”, “cricca in preda al nervosismo”, anzi “al panico”, dinanzi agli inarrestabili successi militari degli “insorti della Novorossiya” , alla “ritirata su tutti i fronti dei soldati e dei volontari inviati dalla “cricca” e alla “caduta vertiginosa dell’economia ucraina”.
È interessante conoscere le condizioni per la cessazione del conflitto, definite “esigenze” e comunicate dal vice premier dell’autoproclamata Repubblica del Donetsk Andrei Pourguin al “gruppo di contatto” di Minsk del quale fanno parte anche l’ambasciatore russo in Ucraina Mikhail Zurabov, l’ex presidente dell’Ucraina Leonid Kuchma e il rappresentante dell’Osce Heidi Tagliavini : 1) fine delle operazioni dell’esercito ucraino e il suo ritiro – anche dall’autoproclamata Repubblica di Luhansk – per organizzare libere elezioni; 2) riconoscimento ufficiale della lingua russa, 3) amnistia per combattenti, prigionieri e dirigenti politici; 4) diritto di designazione di procuratori e giudici; 5) indipendenza economica esterna in vista dell’integrazione (delle due Repubbliche) nell’Unione doganale con la Russia. 6) Una commissione dovrà definire le modalità di un accordo sulla composizione pacifica del conflitto e della rinascita della Novorossiya.
La sostanza di queste proposte è lo smembramento dell’Ucraina, politicamente la rivincita di Putin dalla sconfitta del suo disegno egemonico – anche economico e strategico, ammantato dalla tutela dei russofoni – su tutte le componenti dell’ex Unione Sovietica (da qui i timori, condivisi dalla Nato, delle nazioni baltiche da una parte e, dall’altra, di Bielorussia e Kazakhistan che hanno aderito all’Unione doganale). Una prospettiva che da alcuni analisti, anche di casa nostra, viene data come inevitabile, di “scontata rassegnazione”, escludendo il mondo occidentale l’ipotesi di un conflitto aperto con la Russia. Ma nello stesso tempo – e questi analisti non lo dicono – rinunciando alla difesa dei principi, accettati internazionalmente, di sovranità, dignità e integrità delle nazioni e di quei valori democratici che, paradossalmente, sono a fondamento della sua esistenza.
Ora ammesso e non concesso che finisca così, che genere di rapporti questo mondo occidentale, e l’Unione Europea in particolare e i suoi stati membri, intendono avere, o mantenere, con la Russia di Putin?