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La peste e san Carlo, i vescovi prendano esempio

Le Messe con popolo sospese dalla Cei per il coronavirus? Non così fece san Carlo Borromeo, patrono dei vescovi, di fronte alla terribile peste del 1576-77. Rimproverò le autorità civili perché non cercavano i soccorsi divini, visitò i malati, chiamò sacerdoti da fuori città per amministrare i Sacramenti, organizzò processioni pubbliche, Messe all’aperto. Fu segno di fede, speranza e carità, arrecando sollievo corporale e mettendo la salvezza delle anime al primo posto.

Ecclesia 13_03_2020

Sta passando la prima settimana senza Messe - in tutta Italia - con concorso di popolo, dopo che la Cei ha accolto in toto il decreto governativo dell’8 marzo.

Eppure i vescovi hanno nell’epoca moderna un fulgidissimo esempio, tra i tanti nella storia della Chiesa, di quale sia il loro dovere in caso di epidemia: san Carlo Borromeo (1538-1584), arcivescovo di Milano, che dei vescovi è patrono. La peste che colpì la città ambrosiana nel 1576-1577 aveva un tasso di mortalità di gran lunga superiore al Covid-19, ma per l’intera durata dell’epidemia il Borromeo esortò i suoi sacerdoti, le autorità civili e tutto il popolo a pregare, fare penitenza, partecipare ai divini misteri, convinto che alzare lo sguardo verso Dio, impetrandone la grazia, fosse il primo e indispensabile rimedio per far cessare l’epidemia.

Quella peste seminò morte e desolò, come scrisse Manzoni nei Promessi Sposi, «una buona parte d’Italia, e in ispecie il milanese, dove fu chiamata, ed è tuttora, la peste di san Carlo. Tanto è forte la carità!». Ben prima di Manzoni, che nel romanzo descrive principalmente la successiva peste di Milano (quella del 1630), l’opera di san Carlo era stata raccontata dettagliatamente da suoi contemporanei, come Carlo Bascapè (1550-1615), segretario particolare e primo biografo del santo (in suo onore cambiò il proprio nome in “Carlo” entrando tra i Barnabiti), e Giovan Pietro Giussani o Giussano (c. 1548-1623), anch’egli stretto collaboratore del Borromeo.

Dalla Vita scritta da Bascapè sappiamo che i primi casi di peste, malgrado le molte guardie piazzate all’uopo presso le porte di Milano, erano emersi in città alla fine di luglio del 1576. I magistrati cercarono di aumentare la sorveglianza, ma operando in modo confuso. San Carlo, che vedeva nella peste un castigo divino per i peccati degli uomini, «si accorgeva che le autorità, mentre erano tanto sollecite dei rimedi umani, non si davano premura di cercare, come di dovere, quei soccorsi divini, sui quali soprattutto deve fare affidamento la speranza dei cristiani». In più, negli stessi rimedi umani, che egli pure raccomandava ove necessari, c’era negligenza e l’arcivescovo «dichiarava che questa negligenza gli sembrava un indizio sicuro che in breve la calamità sarebbe divenuta gravissima»[1].

Così avvenne. Alla fine di settembre, ad appena due mesi dai primi casi, si contavano a Milano 6.000 morti di peste. In quello stesso mese, il santo fece il suo testamento, lasciando in eredità i suoi beni all’Ospedale Maggiore, a chiese, amici e familiari. Impressionante era la situazione del lazzaretto, vicino all’attuale Porta Venezia e presso cui sorgeva l’antica cappella di San Gregorio: gli infermi, soprattutto nella prima fase dell’epidemia, erano pressoché abbandonati a loro stessi, «dovevano prestarsi fra di loro le cure necessarie, assistere anche moralmente i loro compagni di sventura e ricevere il necessario per vivere dai parenti, ammesso che ne avessero e sentissero pietà»[2].

San Carlo fece di tutto per provvedere ai bisogni corporali degli appestati, «inviando loro ogni giorno da casa sua il vitto necessario» e facendo raccogliere elemosine in città e fuori. Ma la sua preoccupazione principale era sempre una: «Ancor più si angosciava per la mancanza di assistenza religiosa e dei conforti estremi per la salvezza dell’anima». Bascapè, allora diacono, testimonia al riguardo di aver assistito personalmente «ad una scena pietosissima» quando accompagnò il Borromeo fino al lazzaretto. Costeggiandone l’esterno, il santo vide e udì la disperazione dei malati, tra cui c’era chi lamentava la mancanza degli aiuti spirituali: «Dal momento che siamo privi di ogni altro aiuto – andavano essi gridando – dacci, o padre, almeno la tua benedizione»[3].

Per sopperire alla mancanza di sacerdoti disponibili a offrire assistenza spirituale, mandò alcuni nella parte svizzera ricompresa allora nella diocesi ambrosiana. Come testimoniò il suo domestico Ambros Fornerod: «[…] mi mandò in Levantina, paese de Svizzeri, et condussi in qua 40 huomini, et circa 14 donne, et alcuni sacerdoti a spese sue proprie per servire alli detti infermi»[4].

San Carlo aveva intanto chiesto e ottenuto indulgenze da papa Gregorio XIII. Per impartirle, indisse pubbliche processioni, che si tennero nei primi giorni di ottobre, dopo aver esortato con una lettera il popolo ad accorrere numeroso e a unirvi il digiuno. La prima processione partì dal Duomo verso la basilica di Sant’Ambrogio. Il vescovo portava una grande croce in cui era stata inserita la reliquia del Santo Chiodo. «Prima di avviarsi, Carlo impose a ciascuno le ceneri per indicare più umilmente il sentimento di penitenza». A piedi nudi, con la cappa paonazza, il cappuccio in testa e una fune intorno al collo, guidò la processione con gli occhi rivolti sempre verso la croce. Come lui erano vestiti i canonici, e anche molti sacerdoti e laici procedettero a piedi scalzi, con una fune al collo e piccole croci in mano. Alla fine di quella processione, esortò il popolo «a sopportare con giusto pentimento la sventura e a riformare la sua condotta»[5].

Arrivò poi la quarantena generale ordinata dai magistrati: Carlo domandò ai suoi stessi sacerdoti, non tutti, di stare in casa, «escludendo solo quelli che dovevano dedicarsi al ministero esterno e al culto nelle chiese». Prima che iniziasse la quarantena, chiese con una lettera ai milanesi di vivere quei 40 giorni come insegnano le Sacre Scritture, in spirito di penitenza. Inoltre, invitò tutti a confessarsi e ricevere l’Eucaristia prima del giorno stabilito dalle autorità.

Fu in quel periodo che san Carlo, consapevole del valore infinito della Santa Messa, dispose le celebrazioni eucaristiche all’aperto e si ingegnò per fare dell’intera Milano una città orante. Seguiamo ancora il Bascapè:

«In vari punti della città, che erano i più adatti e i più visibili, così che il maggior numero possibile di persone potesse assistere dalle porte e dalle finestre, fece innalzare degli altari decorosi e convenienti alla celebrazione della Messa [è l’origine delle croci stazionali di Milano, ndr]. Deputò, quindi, alcuni sacerdoti, che ogni giorno vi celebrassero il Divin Sacrificio e fece in modo che potessero anche distribuire la SS. Eucaristia, avendo fatto predisporre delle panche davanti alle porte. Egli stesso compì quella funzione sacerdotale. Inviava parimenti dei sacerdoti con abiti sacri e uno sgabello portatile presso le varie case affinché, seduti alle porte, ad una debita distanza, ascoltassero le confessioni dei rinchiusi. Inoltre, sette volte durante il giorno e la notte, la campana maggiore del Duomo dava dei rintocchi e a quel suono tutti i cittadini dovevano recitare una litania e i salmi, contenuti nell’apposito libretto pubblicato. Ogni piazza o contrada costituiva una specie di coro […]. Quella pratica devota era commovente».

Dapprima favorevole alla quarantena, davanti alla prospettiva del suo prolungamento il santo protestò con il governatore spagnolo, rifugiatosi a Vigevano, perché «ad un certo punto capì che si confidava più in quel rimedio che nella divina misericordia». Ad ogni modo, proseguì con la sua instancabile attività pastorale, che lo portava ad andare in ogni luogo della città a portare conforto alla gente, che si raccomandava alle sue preghiere «e gli esponeva, come ad un padre, le sue necessità e i suoi desideri». Questa fiducia del popolo nel suo vescovo e la sua paternità facevano sì che la folla, ogni volta che il santo usciva dal suo palazzo, gli si accalcasse intorno. Visitando gli ammalati, «si informava minutamente dapprima della condizione spirituale, poi della salute fisica e dell’opera degli assistenti»[6].

Con la sua carità, san Carlo trasmise fede e speranza alla popolazione, orientandola a guardare prima di tutto a Dio e alle realtà eterne. L’epidemia cessò nel luglio 1577. In seguito, in un memoriale, meditando sulla misericordia di Dio che permette e opera tutto per il maggior bene dei Suoi figli, lasciò scritto: «Egli ha ferito e ha sanato; Egli ha flagellato e ha curato; Egli ha posto mano alla verga del castigo e ha offerto il bastone del sostegno». Chiediamo l’intercessione di san Carlo perché ravvivi la fede nostra e dei Vescovi di cui è patrono.

 

[1] Vita di San Carlo Borromeo (De vita et rebus gestis Caroli S. Rom. Ecclesiae Cardinalis tit. S. Praxedis), Carlo Bascapè

[2] Ibidem

[3] Ibidem

[4] Testimonianza per la causa di canonizzazione

[5] Vita di San Carlo Borromeo, C. Bascapè.

[6] Ibidem