La pandemia conferma: no borghesia, no democrazia
Nei Paesi occidentali, piccoli imprenditori ed autonomi si sono trasformati nelle vittime predilette del braccio autoritario del paternalismo di Stato, che ha diviso i cittadini in buoni e cattivi, tutelati e non tutelati. L’erosione dei ceti medi, però, non rappresenta una minaccia soltanto per le economie nazionali, ma anche per la sopravvivenza stessa delle democrazie liberali, le quali rischiano di pagare il prezzo più alto in termini di legittimità politica e stabilità socio-economica.
"Senza borghesia, nessuna democrazia". A rileggerla nell'anno del coronavirus, quella di Barrington Moore jr. più che una sentenza suona come una profezia. La frase del sociologo statunitense ha più di mezzo secolo ma oggi appare più attuale che mai nel ricordare l’indispensabilità di una robusta classe media alla tenuta dei sistemi democratici. Non è un caso, infatti, che la limitazione di quei diritti fondamentali che caratterizzano questa specifica forma di governo abbia avuto conseguenze negative soprattutto sullo stato di salute del ceto medio.
La pandemia ha accelerato e drammatizzato la divaricazione già in corso tra la sua componente più statica rappresentata da impiegati pubblici, pensionati e quadri tecnici, da quella più propulsiva formata da piccoli imprenditori, commercianti, lavoratori autonomi, artigiani e produttori agricoli. Quest’ultima, in particolare, già fiaccata dal carovita globale prodotto dall’internazionalizzazione dei mercati e da una tassazione alta a fronte di un welfare state sempre più squilibrato ne esce con le reni spezzate da quasi un anno di lockdown, coprifuochi e restrizioni varie alla libera circolazione delle persone.
In alcuni Paesi occidentali, anziché diventare i principali destinatari degli aiuti governativi essendo i più vulnerabili davanti alla crisi economica scaturita dall’emergenza sanitaria, piccoli imprenditori ed autonomi si sono trasformati nelle vittime predilette del braccio autoritario di un rinnovato paternalismo di Stato. La divisione dei cittadini tra ‘buoni’ e ‘cattivi’, spesso spregiudicatamente utilizzata per coprire la confusione e la contraddittorietà dei provvedimenti presi dal potere centrale, è sembrata a tratti aver avuto come riflesso l’innesco di una ‘guerra civile’ di pensieri e comportamenti all’interno della stessa classe media: i ‘garantiti’ a temere soprattutto il contagio, i ‘non garantiti’ a temere soprattutto la povertà.
L’erosione dei ceti medi, però, non rappresenta una minaccia soltanto per le economie nazionali ma anche per la sopravvivenza stessa delle democrazie liberali. Di quest’ultime, infatti, hanno costituito sin dall’origine la spina dorsale, come ricordato dal già citato Barrington Moore jr. e come sostenuto prima ancora da Alexis de Tocqueville alla luce del modello americano (“vi è una cosa che l'America dimostra in modo incontestabile, e di cui finora io avevo dubitato: che le classi medie possano governare uno Stato"). La crescita di numero e di qualità della middle class è da sempre garanzia di un grado elevato di mobilità sociale e quindi motore di una partecipazione più estesa alla vita civile e politica.
Così come il ceto medio paga il prezzo più alto per le conseguenze della pandemia e dell’assenza di un sostegno adeguato, la democrazia - che è al tempo stesso sistema sociale e forma di governo - rischia di pagare il prezzo più alto in termini di legittimità politica e stabilità socio-economica per la crisi del ceto medio. La contrapposizione che a tratti sembra essersi instillata all’interno delle diverse anime della classe media sul modo di affrontare l’emergenza, non di rado alimentata dall’inadeguatezza delle autorità e dal sensazionalismo dei media, laddove non adeguatamente neutralizzata potrebbe sfociare nel risveglio di quei conflitti sociali che credevamo sopiti nel mondo occidentale. La legittima urgenza di combattere il virus ed evitare i contagi sta probabilmente rinviando la presa di coscienza della gravità di un indebolimento così repentino subito dalla componente più dinamica del sistema democratico.
David Runciman, docente a Cambridge e autore due anni fa del profetico “How Democracy Ends”, ha scritto nel suo più recente "The Confidence Trap” che il problema delle democrazie non è che non riescono a sentire i “sussurri della loro mortalità", ma che “li sentono così spesso che non sanno quando prenderli sul serio”. Poiché il loro destino è incrociato con quello della classe media, forse è arrivata l’ora che i governanti si apprestino a comprendere che lo sbriciolamento in corso della ‘spina dorsale’ della democrazia non è certo un ‘al lupo, al lupo!’.
Sempre Runciman ha ragione a dire che questa crisi ci ha rivelato che i “governi nazionali contano davvero, ed è davvero importante in quale ti capita di trovarti”; per questo un allargamento della base della rappresentanza negli organi decisionali capace di coinvolgere doverosamente anche le istanze di categorie così colpite dalla crisi consentirebbe di evitare il pericolo denunciato quasi due secoli fa da Alexis de Tocqueville, quello di una transizione della democrazia verso un dispotismo che “stende le sue braccia su tutta quanta la società; ne ricopre la superficie con una rete di piccole regole complicate, minuziose ed uniformi, attraverso le quali anche gli spiriti più originali e gli animi più energici non possono mai farsi strada per mettersi in luce e sollevarsi sopra la massa”. Uno Stato, quindi, che “ostacola, comprime, spegne, inebetisce e riduce infine la nazione a non essere altro che un gregge timido ed industrioso, di cui il governo è il pastore”.