La morte di Marchionne risveglia gli ideologi
Dal momento della notizia sulla gravità delle condizioni di salute dell'ad di Fca, si è assistito a un crescendo di insulti e giudizi inquietanti nei suoi confronti: da un Bertinotti che vede in Marchionne non una persona ma il simbolo del capitalismo distruttore di civiltà ai tanti giornalisti che si sono "sfogati" sui social.
I bollettini medici avevano spento ogni speranza. La scomparsa di Sergio Marchionne era purtroppo abbondantemente annunciata. Nonostante questo, però, già durante gli ultimi giorni di vita, nell’opinione pubblica, nella classe politica, anche quella del passato, e nel mondo dei media, anche on line, si sono scatenate polemiche stucchevoli e in larga parte fuori luogo sul profilo personale e sulle cose fatte in vita dal manager che cambiò la Fiat.
Sarà difficile dimenticare, in particolare, le parole di un uomo solitamente equilibrato e anzi da tempo convertito al post-ideologismo e post-comunismo (almeno così diceva lui stesso), Fausto Bertinotti che, in un’intervista all’Ansa, nelle ore di agonia di Sergio Marchionne, ha detto: «La divisa che ha vestito è quella del capitalismo globale finanziario che ha portato una contrazione di civiltà». Bertinotti non è stato solo Presidente della Camera e leader di Rifondazione comunista ma anche un dirigente della Cgil. E si vede. Adopera slogan da operaismo degli anni Settanta, rinfocolando polemiche che credevamo sopite e che rischiano di riportare il Paese all’epoca buia degli scontri di piazza e, soprattutto, delle Brigate Rosse. Marchionne per Bertinotti è colui che portò la Fiat «dai 120 mila dipendenti del 2000 ai circa 29 mila di oggi». Senza dimenticare, aggiunge l’ex Presidente della Camera, che «Mirafiori e Pomigliano d'Arco erano luoghi d'eccellenza nel mondo e oggi Mirafiori è un deserto e Pomigliano una striscia di cassintegrazione». E poi l’affondo finale: «Marchionne è stato il protagonista di questa ristrutturazione del capitalismo mondiale la quale ha portato il lavoro ad essere solo una variabile dipendente. Ha portato un attacco a un sindacato che pretendeva di essere indipendente dalle imprese e ha concepito l'impresa come una comunità chiusa in lotta contro un'altra impresa chiusa concorrente. Impresa che quindi diventa fagocitazione di un mondo che ha come dio la concorrenza interna, costi quel che costi».
Un messaggio davvero inquietante quello di Bertinotti, che sembra fermo a una visione del mondo del lavoro che non esiste più da decenni e che tante lacerazioni ha prodotto nella società italiana.
Commenti non meno caustici quelli del Presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, che ha usato Facebook per lanciare la sua invettiva contro il manager in fin di vita: «Marchionne era un manager capace, soprattutto per gli azionisti, ma certo poco o per niente attento alla storia e agli interessi industriali del Paese, il quale, d’altra parte, ha avuto una politica debole, priva di strategie industriali, che sostanzialmente ha lasciato fare». Rossi ha fatto polemicamente riferimento anche alla residenza in Svizzera per pagare meno tasse, il Progetto Italia subito negato, il baricentro aziendale che si sposta in Usa, la sede legale di FCA in Olanda e quella fiscale.
In ambito mediatico il quotidiano che più di tutti gli altri si è spinto sul terreno della polemica feroce contro l’”odiato nemico” è stato “il Manifesto”, con il titolo “E così Fiat”, corredato da foto dell’ormai ex ad di Fca e Ferrari. Il giornale comunista ha giocato sul significato del latino fiat per annunciare il dramma del dirigente che «ha causato migliaia di licenziamenti e cassaintegrazioni negli stabilimenti Fiat». Il titolo è molto esplicito e ha suscitato il disgusto di molti osservatori, tanto che da più parti si è auspicato l’intervento del consiglio di disciplina dell’Ordine dei giornalisti del Lazio per sanzionare i responsabili, visto che per altri quotidiani come “Libero”, in altre circostanze, il giudice disciplinare dei giornalisti si era mosso per aprire procedimenti a carico del direttore.
Ma sono soprattutto i social in queste ore gli “sfogatoi” di un certo odio viscerale nei riguardi di Marchionne, vissuto da molti come l’avversario più ostico di operai e sindacati e il responsabile di gravi violazioni dello Statuto dei lavoratori. Se è insito nella natura libera della Rete il rischio che haters e facinorosi si scatenino senza freni inibitori, desta abbastanza scalpore la degenerazione che su Facebook si avverte per ciò che riguarda il dibattito tra giornalisti.
Se gli autori dei post non sono giornalisti, si possono soltanto esprimere sentimenti di riprovazione morale per gli attacchi davvero squallidi nei confronti di Marchionne negli ultimi giorni di vita presso la clinica di Zurigo dove era ricoverato. Se invece ad alimentare insulti e cattiverie imbarazzanti e ciniche nei suoi riguardi sono alcuni giornalisti, è bene che l’Ordine professionale intervenga, segnalando ai consigli di disciplina i profili di quegli iscritti all’elenco professionisti o all’elenco pubblicisti che si sono resi responsabili di giudizi indegni e contrari alla deontologia professionale.
L’art.2 del Testo unico dei doveri del giornalista obbliga, infatti, gli iscritti all’Ordine dei giornalisti a rispettare i principi deontologici anche quando scrivono giudizi personali sui propri profili di social network. Non possono considerare Facebook come una zona franca dove tutto è lecito, qualsiasi sproloquio, qualsiasi contumelia all’indirizzo di chicchessia. La notorietà che i giornalisti hanno acquisito nell’esercizio della attività professionale impone loro una coerenza deontologica anche quando si collegano a una pagina social. Nelle polemiche su Marchionne sono stati diversi i giornalisti che hanno passato il segno. Una vera caduta di stile. L’ennesima.