La mia amicizia con Caffarra mentre si consumava per amore della Chiesa
La mia prima telefonata al cardinale, l'incontro in Montagna, il sotegno nel lavoro di giornalista e durante il periodo di fidanzamento. La sua compagnia nel vivere il sacramento del Matrimonio. E le ultime vacanze passate insieme in montagna. Così Caffarrà mi ha reso vicino il volto di Dio, padre e maestro di verità, con un amore e un affetto senza pari. E lasciando in eredità un grande compito.
Conobbi il cardinal Caffarra, prima grazie al mio lavoro e poi come padre e amico. Avevo 25 anni la prima volta che lo chiamai come giornalista chiedendogli ingenuamente, come parlassi a un prete qualunque, perché nella Chiesa nessuno diceva che la legge sulle Dat ("testamento biologico") era un abominio inaccettabile. Non mi domandò, come avrebbe potuto fare, chi fossi e chi mi credevo di essere ma rimase in silenzio addolorato. Silenzio che poi ruppe con vigore durante l’ultimo sinodo sulla Famiglia, quando vide il demonio, come diceva lui, sferzare il suo attacco più pensante alla Chiesa “attraverso quello alla famiglia e quindi alla creazione divina”, diceva spesso. Trovai così in Caffarra un grande conforto, mentre tanti uomini di Chiesa preferivano aderire all’ambiguità imperante, lasciando i loro figli nello smarrimento.
Poi, poco dopo, ebbi la grazia di incontrarlo di persona. Grazie all’amicizia di padre e maestro che il cardinale aveva con mio fratello (sacerdote che studia presso il suo tanto amato Istituto Giovanni Paolo II), passai una settimana di vacanza con lui insieme alla Comunità di Cl del mio paese. Quando arrivai in montagna mi dissero che il cardinale mi aspettava. Non potevo crederci, dato che quando ci eravamo sentiti qualche anno prima, avevamo parlato solo al telefono. Invece, appena mi vide, mi abbracciò forte esortandomi con dolcezza infinita così: “Forza Benedetta eh, forza” e me lo ripeteva, non per circostanza, ogni volta che mi incontrava nei corridoi dell'albergo e la mattina quando andavo a dargli il buongiorno.
Poi gli occhi mi si riempirono di lacrime quando disse a Federico, allora mio fidanzato e attuale marito, che era fortunato. E mi si riempirono, non tanto perché fosse così (dissi che era se mai vero il contrario e non per modestia) ma perché capivo che quel grande pastore voleva dirmi che credeva in me, che valevo e soprattutto che la mia miseria non poteva essere un alibi all'essere una moglie buona e sottomessa (diceva che il mondo si sarebbe convertito, attraverso la Madonna, con la conversione della donna). Per lo stesso motivo, se capiva che ne avevo bisogno, mi scriveva per sostenermi nel lavoro.
Poco dopo cominciai con mio marito ed alcuni amici ad andare a trovarlo a Bologna: “Non temere, Dio con il sacramento ti donerà la sua capacità di amare”, mi spiegava. Insieme a me incontrava alcuni giovani pieni di domande sulla fede e lui, come un padre, si prendeva a cuore tutti noi, accogliendoci in casa sua con dolci e bevande, parlandoci e ascoltandoci per ore. E, pur stanco e malato accolse la richiesta di alcune coppie ad essere seguite nel cammino di preparazione al matrimonio (posso dire di aver assistito a cambiamenti di coppia impressionanti in pochi mesi).
Mi resta come immagine dell’amore sponsale composto da tre persone, l’uomo, la donna e Dio, un episodio: era sera e il cardinale parlava, davanti al cielo stellato di Corvara, a me e a Federico dell’amore fra uomo e donna. Stava seduto fra noi con le mani sulle spalle di entrambi, a dirci quanto fosse grande e misterioso il dono che stavamo per ricevere, ad esortarci a pregare sempre, a ricevere l’Eucarestia insieme e a non rinunciare mai alla verità e alla ragione anche quando fossero uomini importanti a domandarlo, ché “la fede non è mai contro la ragione”. Nelle fatiche, continuò poi, “dovete ricordare che gli amici più reali, anche di quelli che avete qui, sono i santi, pregateli”. Ma sopratutto, ci disse, “ora Federico la tua migliore amica è lei e il tuo migliore amico è lui”. Poi, cosa che continuò a ripetere, saranno le famiglie in comunione, ad essere le minoranze creative che con forme nuove, come fecero i monaci benedetti, rinnoveranno la Chiesa. "Ma - aggiungeva - siete voi a dover capire come". Non posso poi dimenticare la stima con cui guardava Federico, passandola a me e facendomi vedere la grandezza della persona che Dio mi ha donato.
Sì, aveva ancora una stima degli uomini immensa e riusciva a correggere le persone valorizzandole. E pur nelle tragedie personali era speranzoso e infondeva speranza. Non ho mai conosciuto una persona con un ruolo tanto alto ma così umile: risi di gioia quando vidi il suo video-saluto per il matrimonio mio e di Federico o quando lo guardai ascoltare, come fossero il Signore, i bimbi piccoli dei miei amici (li prendeva sul serio fino a rispondere loro che servire e amare il Papa è dirgli la verità con amore, anche quando ci costa).
Nella lettera che ci inviò prima delle nozze a cui non poté essere presente, non ci disse solo che il matrimonio era la traduzione “spirituale-carnale dell’Atto d’amore vissuto da Cristo sulla Croce”, ma che per comprendere “a quale grandezza il sacramento del matrimonio vi elevi” avrebbe pregato la Madonna che ci ottenesse dallo Spirito “occhi del cuore illuminati”. Sottolineando che per “vedere Dio abitare nel vostro cuore” dovevamo essere “umili e puri di cuore”.
Così, umilmente, lo scorso agosto ancora in vacanza con noi aspettava me e Ferico felice come un bambino di vederci marito e moglie. Lì decise di mettere tutte le ore della sua giornata a disposizione della gente che aveva bisogno di parlargli. In questo modo, pur stanco e malato com’era, anche se riuscì a nascondere la gravità del suo stato di salute, ha passato le sue ferie ad ascoltare i problemi di tutti, alcuni davvero enormi, con una calma, un amore e una pazienza che mostravano palesemente la sua vicinanza a Dio. Tanto che, pur preoccupatissimo per la confusione nella Chiesa, ci spronava con voce dolce e sicura a pregare la Madonna, a trarre forza dai sacramenti e a studiare il catechismo per non rimanere confusi. E quindi a guardare Gesù, “che guida la barca, anche nella tempesta". Altrimenti, eh, faceva sorridendo, "facciamo come Pietro che quando ha smesso di guardare Gesù è sprofondato nelle acque”.
Quando gli parlai l’ultima volta, aggiunse che con il nostro lavoro avevamo il compito profetico di dire che la vita non era di nessuno, né dei genitori, né dello Stato, né dei medici e nemmeno dell’uomo a cui era donata, ma solo di Dio e che per questo avremmo dovuto saper sopportare l’odio e anche i tradimenti degli amici, imitando Gesù Cristo. Nello stesso tempo, però, non voleva che ci sobbarcassimo compiti più grandi di quelli che Dio ci ha dato, perché "hai bisogno di riposo" e perché "davanti a tutto c’è la vostra vocazione alla famiglia”.
Ci confessò che negli ultimi tempi riceveva attacchi pesantissimi e che soffriva molto per la morte improvvisa del suo amico cardinal Meisner, ma nel dolore che gli toglieva il sonno e la salute, era ultimamente in pace, sapendo che alla fine della sua vita avrebbe dovuto rendere conto solo a Dio. Perciò mi citò san Filippo Neri che rispose al papa che lo voleva cardinale: “Preferisco il Paradiso”. Era là che guardava continuamente, tanto da riflettere, soprattutto ultimamente, l’immagine e la paternità di Dio padre (quanto avrei voluto certe volte costruire una tenda e rimanere vicina a lui). Ed era sempre all’Aldilà che pensava per farsi forza nell’andare controcorrente. Sì, pensava al cielo, dove ora la Madonna, sono certa, lo abbraccerà ringraziandolo del suo sacrificio, continuando però ad amare la Chiesa terrena, come fece in terra fino a sopportare l’odio dei suoi stessi figli: “Quando si tratta della salvezza delle anime - ripeteva facendosi serio - non si può tacere”. Per questo, pur cercando di evitare il calice amaro, capiì con certezza che doveva bere quello dell'incompresnione subita per aver chiesto al papa di chiarire i dubbi dottrinali che stanno lacerando la sua Chiesa.
Sorrido quindi pensando a come la stampa e parte della Chiesa hanno provato a ridurlo all'immagine di "cardinale integralista dei dubia”, perché raramente ho conosciuto una persona così buona e innamorata della salvezza dell’uomo, tanto da ripetergli la verità sobbarcandosi le conseguenze di dover portare sulle spalle ogni persona cui dava un giudizio. Più comodo tacere.
La perdita del Cardinale ci lascia privi di una guida nella strada per il Cielo e nella lotta per la fede. Ma la sua eredità, di cui siamo immensamente grati, è grande. Ora tocca a noi camminare seguendo la via che ci ha indicato, guardando Gesù Cristo sulla barca e indicandolo ad altri. Diventando così minoranze creative in un mondo al collasso. Come figli ci prendiamo questa eredità chiedendo che insieme alla sua amata Vergine Maria ci sostenga più forte che mai dal cielo.