La metà del cibo sprecato è nei Paesi poveri
Expo 2015: qualcuno fotografa sacchi di pane accumulati vicino a un padiglione e pubblica on line le immagini, denunciando il paradosso di questo evento che diventa occasione di sprechi. Ma pochi sanno che non si spreca soltanto nei Paesi ricchi. Anzi, i Paesi ricchi sono responsabili solo per poco più della metà degli sprechi: 670 milioni di tonnellate. Le rimanenti 630 milioni di tonnellate si sprecano nei Paesi poveri.
Expo 2015: qualcuno fotografa sacchi di pane accumulati vicino a un padiglione e pubblica on line le immagini, denunciando il paradosso di un evento intitolato “Nutrire il pianeta” che diventa occasione di sprechi alimentari. Altri si uniscono allo sdegno. Può darsi però che i pacchi fossero stati messi lì in attesa che passasse a prenderli il Banco Alimentare, l’organizzazione che raccoglie eccedenze di cibo e le ridistribuisce a enti assistenziali e persone in stato di bisogno. Poiché nei circuiti della grande distribuzione e ristorazione è prevedibile che grandi quantità di cibo vadano sprecate, il Banco si è infatti attivato per ridurre il danno. Nei mesi scorsi aveva annunciato che sperava di raccogliere almeno il 40% degli alimenti non consumati all’Expo.
Tuttavia, se anche ci riuscisse, oltre metà del cibo dell’Expo di Milano finirebbe inutilizzato, andando ad aggiungersi alla quantità di generi commestibili che ogni anno vengono sprecati: che sono tanti. Una indagine – “Perdite e sprechi alimentari globali” – svolta su incarico della Fao da un istituto di ricerca svedese nel 2011 ne ha quantificato l’entità astronomica, sorprendente: 1,3 miliardi di tonnellate, pari a un terzo della produzione alimentare mondiale. La rivelazione ha suscitato commenti e riflessioni, essenzialmente incentrati su due argomenti che ritroviamo nel Protocollo di Milano sull’alimentazione e la nutrizione, un documento presentato nel 2013 in vista dell’Expo Milano 2015 dal Centro Barilla per il cibo e l’alimentazione.
Il primo argomento è che una simile quantità di cibo basterebbe a nutrire chi ancora nel mondo soffre la fame e ne avanzerebbe. È stato calcolato che sarebbe sufficiente un quarto di quegli 1,3 miliardi di tonnellate per dar da mangiare agli 805 milioni di persone tuttora malnutrite. Il secondo argomento è l’impatto negativo sull’ambiente della sovrapproduzione di cibo: in termini sia di inutile dispendio di energia e di risorse naturali sia di inquinamento, causato, oltre che dalla produzione e dal trasporto, anche dallo smaltimento delle derrate alimentari inutilizzate e delle loro confezioni. Entrambi gli argomenti riguardano stili di vita e modelli di consumo tipici dei Paesi ricchi, industrializzati: ed è ad essi, infatti, che si rimprovera di sprecare sconsideratamente, inquinando il Pianeta, mentre ogni anno nel mondo 36 milioni di persone muoiono di fame. Senonché la ricerca della Fao contiene una rivelazione ancora più sorprendente: non si spreca soltanto nei Paesi ricchi. Anzi, i Paesi ricchi sono responsabili solo per poco più della metà degli sprechi: 670 milioni di tonnellate di cibo. Le rimanenti 630 milioni di tonnellate si sprecano nei Paesi poveri, in via di sviluppo: con alcune differenze.
I ricercatori svedesi hanno individuato cinque fasi nella catena alimentare: la produzione agricola, l’insieme costituito da raccolto, trasporto e immagazzinamento, la lavorazione, la distribuzione e il consumo. Per “perdite” alimentari hanno inteso i prodotti che vanno perduti durante le prime tre fasi della catena alimentare, dalla produzione alla lavorazione, e per “sprechi” gli alimenti invenduti e gettati via dai consumatori nelle ultime due fasi. Nei Paesi industrializzati gli sprechi prevalgono. Il 60% del cibo è scartato nella fase della distribuzione e in quella del consumo: in parte perché i consumatori tendono ad acquistare generi alimentari in quantità e varietà superiori al fabbisogno e in parte per via di un’offerta superiore alla domanda che costringe a ritirare dal commercio molti prodotti invenduti entro i termini di scadenza. A determinare perdite, nelle prime tre fasi della catena alimentare, concorrono sia una produzione eccedente al fabbisogno, per cui dei raccolti vengono distrutti, sia gli standard relativi non solo alla qualità, ma anche all’aspetto degli alimenti – peso, dimensioni, forma… – che porta a scartare quelli non corrispondenti agli standard.
Nei Paesi in via di sviluppo il rapporto è invertito: il 60% del cibo si perde nelle fasi che vanno dalla produzione alla lavorazione. Le quantità di prodotti perduti, quasi 400.000 tonnellate, si devono innanzi tutto alla limitata disponibilità di tecnologie moderne. Si perdono bestiame e colture perché esposti a intemperie, insetti e parassiti, nei campi e nei pascoli. Carni e raccolti si deteriorano perché conservati in granai, depositi e magazzini che non li proteggono adeguatamente da insetti, parassiti e agenti atmosferici. Guerre e conflitti armati contribuiscono alle perdite. Degli attuali oltre 51 milioni di profughi e sfollati, molti sono abitanti di aree rurali che fuggendo hanno abbandonato bestiame e raccolti, andati dispersi. Così, mentre tecnici, economisti e cooperanti pensano a come risolvere il problema della fame – assistenza, ridistribuzione, riforme strutturali, sostegno alle imprese famigliari, industrializzazione del settore agricolo… – basterebbe che almeno metà di quelle 630 milioni di tonnellate di cibo sprecate nei Paesi in via di sviluppo venissero salvate e nessuno morirebbe più di fame.