La menzogna dell'aborto che cura
Allo stato attuale delle conoscenze
è incontestabile anche per gli stessi abortisti che l’aborto non è per niente terapeutico.
«Di fatto, per la donna sana con un matrimonio felice, l’aborto è più spesso veramente terapeutico». Con questa frase il dottor Malcolm Potts a pagina 227 del suo saggio scientifico dedicato all’aborto pubblicato per le edizioni dell’Università di Cambridge nel 1977, "demitizzava" il presunto danno per la madre derivante dall’aborto volontario. Chi era il dottor Potts? Si può rispondere che per decenni, assieme a Christopher Tietze, Mary Calderone, Alan Guttmacher, egli abbia costituito la punta di lancia dello schieramento militante di medici abortisti, risultato determinante per la legalizzazione dell’aborto in America e nell’occidente. Fondatore della prima clinica per la contraccezione giovanile a Cambridge, primo uomo ad operare alla clinica per aborti londinese Marie Stopes, primo direttore medico di una delle maggiori organizzazioni abortiste, la International Planned Parenthood Federation, ancora oggi dalla cattedra dell’Università di Berkley il professor Potts è attivo promotore di iniziative volte alla diffusione del controllo delle nascite e all’espansione dell’accesso all’aborto. Difficile immaginare qualcosa di diverso, se si è convinti che abortire faccia bene alla salute delle donne.
In effetti l’abortismo libertario, per utilizzare una categoria del giurista Lombardi Vallauri, si è sempre affermato attraverso il tentacolo umanitario. Perché in moltissime legislazioni, compresa quella italiana, le donne possono liberamente abortire? Per salvaguardare, si dice, la loro salute, identificata nella quasi totalità dei casi, con la salute psichica. Negli anni della lotta per giustificare l’aborto legale come riconoscimento di un diritto alla salute, fu molto importante per il movimento abortista potere disporre di studi che dimostravano alti livelli di ansia tra le donne con gravidanza non programmata ed il miglioramento che seguiva l’interruzione volontaria della gravidanza. La frase citata in apertura, che semplicemente riprendeva una pubblicazione medica del 1970, può essere considerata un esempio di quell’azione ideologica camuffata da avanzamento nelle acquisizioni scientifiche.
In effetti sarebbe stato strano che l’ansia connessa alla gravidanza e dalla preoccupazione per un livello in genere ad elevato contenuto emozionale, non si mostrasse mitigata nel breve periodo dopo l’aborto, ma che cosa succedeva guardando le cose con una prospettiva di puù lungo termine? In effetti nel corso degli anni ha cominciato a emergere una realtà assai diversa rispetto al quadro idilliaco di psico-terapeuticità dell’aborto: un certo numero di donne stavano male, alcune uscivano da quell’esperienza a pezzi e avevano cominciato a rivolgersi a psicologi, psichiatri, sacerdoti in cerca di una qualche forma di aiuto, per un malessere che non voleva saperne di abbandonarle. Dopo una serie di studi risalenti in maggioranza agli inizi degli anni 2000, nel 2004 giunse uno dei colpi più forti alla teoria fino a quel momento sostenuta da uno studio molto ampio della durata di 14 anni condotto confrontando tutte le donne che dal 1987 al 2000 avevano abortito volontariamente con le altre che invece avevano patito un aborto spontaneo o invece avevano portato a termine la gravidanza con la nascita del figlio. Lo studio venne pubblicato sulla rivista dei ginecologi americani e mostrò che l’aborto volontario si associava ad una mortalità tripla e addirittura, se si andavano a contare le morti da causa violenta, l’incidenza risultava aumentata di ben sei volte. Dopo quello studio non si poteva più sostenere che le donne avessero una saluta migliore dopo l’aborto.
Colto in fallo il movimento abortista mise immediatamente al lavoro i propri tecnici, per depotenziare l’esplosività di quel dato e questi riuscirono a tirare fuori dal cilindro una soluzione, seppure parziale: quel risultato non attestava la pericolosità dell’aborto per la salute mentale delle donne per due motivi sostanziali, il primo perché il confronto sarebbe dovuto essere svolto confrontando le donne che abortiscono non con tutte le donne che partoriscono, ma con solo quelle che portano a termine una gravidanza non programmata o espressamente indesiderata, la seconda ragione che inficiava il risultato consisteva nella mancanza di controllo della salute mentale prima dell’aborto. Si formò così piuttosto velocemente la linea del Piave dell’abortismo psichiatrico e ginecologico: le donne che abortiscono non stanno psicologicamente peggio a causa dell’aborto, ma i problemi psichici sono presenti tra queste in maggiore misura prima dell’aborto e determinano un maggiore rischio di aborto; se si considerano questi fattori l’aborto non esercita alcun impatto negativo sulla salute mentale delle donne che ad esso si sottopongono. Nel 2006 un altro ricercatore, il neozelandese Fergusson, non credente, schierato su posizioni pro-choice, pubblica i risultato di un’indagine in cui più di mille bambini vengono seguiti dalla nascita fino l’età di 25 anni. Pur tenendo di conto di numerosissimi altri fattori che teoricamente potevano influenzare il risultato emerge che le ragazze con esperienza di aborto volontario mostravano un’incidenza di ansia, depressione e pensieri suicidari significativamente superiore alle coetanee che non erano mai rimaste incinte ed a quelle che, incinte, avevano fatto nascere il bambino.
C’è di più, il dottor Fergusson, dopo la pubblicazione dell’articolo, rivela al pubblico di avere subito pressioni affinché quei dati non fossero pubblicati. Si trattava di una realtà scomoda, un non credente non poteva essere accusato di confessionalismo. Come un orologio il movimento abortista si mise di nuovo al lavoro e trovò la soluzione nella pubblicazione di revisioni della letteratura, la più importante delle quali, nel 2008, ad opera niente di meno che della potente associazione degli psicologi americani, una realtà dove il pensiero relativista è pressoché un dogma di fede. Che tra i sei revisori almeno due, Brenda Major e Nancy Felipe Russo fossero esponenti dichiarati dell’ideologia abortista, ed altri, come Linda Beckman, appartenenti al fronte pro-choice, è dettaglio da non trascurare, tanto che già a nomine appena avvenute, il mondo pro-life esprimeva la certezza di un pronunciamento negazionista. E questo è infatti quanto avvenne; attraverso un sapiente gioco di selezione degli studi e di valutazione differenziata delle problematiche metodologiche a seconda del risultato degli studi, la commissione giunse a concludere che «tra le donne che hanno un singolo aborto legale nel primo trimestre per una gravidanza non programmata per ragioni non terapeutiche, il rischio relativo di problemi mentali non è maggiore del rischio tra le donne che portano a termine una gravidanza non programmata».
Nel 2011 è infine apparsa una medesima revisione del collegio degli psichiatri inglesi che, seppure in maniera più sfumata, afferma che «i risultati per la salute mentale sono probabilmente gli stessi, indipendentemente che la donna con gravidanza indesiderata opti per l’aborto o la nascita», aggiungendo però uno spunto precauzionale: «se le donne che abortiscono mostrano una reazione emotiva negativa all’aborto, o fanno esperienza di eventi vitali stressanti, dovrebbe essere offerto sostegno e controlli poiché con maggiore probabilità di altre sviluppano un problema di salute mentale». La saga potrebbe sembrare finita qui, ma in effetti non è così. Con una articolo "bomba" apparso sul numero di settembre della rivista degli psichiatri inglesi Priscilla Coleman, specialista con lunga esperienza di studio ed assistenza alle donne in difficoltà psicologica dopo l’aborto, pubblica una revisione dei dati su poco meno di novecentomila donne che per la prima volta assembla le risultanze numeriche provenienti da 22 studi ed il risultato è chiaro: rischio aumentato di ansia, raddoppio dell’abuso di alcool, uso di marijuana più che triplicato, rischio suicidarlo aumentato di due volte e mezzo; nel complesso un aumento dell’81% di problemi psichici a carico delle donne che abortiscono.
L’articolo ha suscitato un prevedibile polverone, accuse di incompetenza scientifica e faziosità sono state apertamente rivolte all’autrice, critiche al processo scientifico che ha portato all’accettazione dell’articolo da parte sulla rivista e invito al ritiro dello studio hanno caratterizzato il contenuto di numerosi commenti. Accanto a questi, la difesa del prof. Fergusson che ha anticipato un prossimo studio realizzato con lo stesso approccio della Coleman, ma tenendo conto delle critiche rivolte al suo lavoro. Il risultato? Considerando anche i soli studi in cui le condizioni psichiche erano valutate anche prima dell’aborto, vengono confermati l’incremento del rischio per la salute delle donne che abortiscono (+36%), l’aumento del disturbo d’ansia, dell’abuso di sostanze, dei comportamenti suicidari.
In conclusione credo che la lezione da trarre sia la stessa che abbiamo scritto al Bristish Journal of Psychiatry che l’ha pubblicata tra le lettere: allo stato delle conoscenze è incontestabile anche per gli stessi abortisti che l’aborto non è per niente terapeutico; a livello di salute pubblica costituisce una procedura per le donne di nessuna utilità al fine della salvaguardia della loro salute mentale, si tratta in sostanza di una procedura futile. A livello fattuale il "serio pericolo per la salute della donna" posto a giustificazione della richiesta di aborto dalla legge italiana non riceve alcuna mitigazione dall’aborto. Vorrà il mondo della politica, dell’informazione, della cultura, della legge prenderne atto e trarne le logiche conseguenze? C’è da dubitarne, ma qui si gioca una buona fetta dell’onestà intellettuale di tanti attori sulla scena; hic Rhodus, hic saltus.