La matrjoska del voto e i "princìpi non negoziabili"
Sta per finire la "fase A" delle primarie Repubblicane. Tutti i candidati sono, seppur diversamente, forti. Tutti sono il contrario del relativismo di Obama.
La primarie che il Partito Repubblicano sta svolgendo negli Stati Uniti d’America stanno avviandosi alla conclusione della “fase A”, cioè quella che precede il cosiddetto "Super Tuesday", quest’anno il 6 marzo, allorché voteranno contemporaneamente 11 Stati, assegnando complessivamente quasi 450 di quei delegati vitali alla Convenzione nazionale del partito che, a fine agosto, a Tampa, in Florida, designerà lo sfidante di Barack Obama.
Da quel momento clou ci dividono "solo" i dati dei caucus del Maine (un "voto lungo", apertosi il 4 febbraio), i quali giungeranno l’11 febbraio, nonché - il 28 febbraio - delle primarie in Arizona e Michigan, e - il 3 marzo - dei caucus nello Stato di Washington. Si comincia, cioè, a votare simultaneamente in più Stati, e questo complica le vicende politiche dei candidati, soprattutto di quelli che dispongono di meno denaro - e quindi che magari contano pure su staff più ridotti - per ottemperare alle esigenze di campagne elettorali tanto sparpagliate.
Archiviato il voto in Nevada, la prova generale del voto simultaneo in più Stati si è del resto avuta il 7 febbraio, quando Rick Santorum è tornato a vincere, e a farlo con enorme spolvero, in Colorado, Minnesota e Missouri, Stati dove ha polverizzando Mitt Romney (e gli altri due candidati in corsa, Newt Gingrich e Ron Paul). Un fatto, questo, che ha bene messo in evidenza alcune questioni di quadro generale.
Anzitutto, nessuno dei quattro candidati ancora in corsa ha mai totalizzato in alcuno Stato quei famosi e famigerati risultati "da prefisso telefonico" che sono lo spauracchio elettorale di ogni partito o candidato del mondo intero, e che da soli possono inibire qualsiasi velleità. Tutti hanno sempre guadagnato almeno più del 10% dei suffragi espressi dall’elettorato Repubblicano, e questa è cosa che non accade tanto spesso.
Letta bene, significa che nessuno di loro è già sconfitto in partenza o comunque anzitempo; che tutti riescono a intercettare fette importanti di elettorato Repubblicano; ma soprattutto che le loro candidature politiche possono avere peso specifico a prescindere da chi poi vincerà la nomination finale anti-Obama. Magari per il futuro gabinetto che il prescelto Repubblicano a sfidare i Democratici dovrà allestire, che sarà di governo se i Repubblicani dovessero vincere la Casa Bianca in novembre e che sarà comunque stato un progetto rilevante qualora fosse Obama a vincere il confronto finale.
Del resto, a valle del voto nei caucus del 7 febbraio che ha consegnato la palma del vincitore a Santorum, il meccanismo con cui il Partito Repubblicano di uno Stato come il Colorado assegna i delegati utili per la Convenzione nazionale di agosto fa sì che tutto si svolga per centri concentrici sempre più stretti e che i vari livelli di rappresentanza interna al partito eleggano, come in una sorta di matrjoska, dei delegati che eleggono altri delegati che eleggono altri delegati, tutto tenendo come riferimento e base l’esito del voto popolare. Ebbene, questo significa che quando in aprile il gioco del Colorado sarà arrivato allo stadio finale, cioè si svolgerà la convenzione Repubblicana di quello Stato incaricata di assegnare i delegati per quella nazionale di agosto, i vari candidati delle primarie che già si sono sottoposti al gradimento del pubblico torneranno in quei luoghi per contendersi non più il voto popolare, ma il plauso di almeno un parte dei delegati. Accadrà, insomma, che questo gioco apparentemente infinito riporterà soprattutto le teste di serie del confronto del 7 febbraio in mezzo alla gente per farsi "scegliere" - almeno culturalmente - una volta in più.
Tenendo presente che nessuno di questi quattro contendenti Repubblicani è impresentabile sul piano dei "princìpi non negoziabili" - e spesso anche su quelli di questioni legittimamente più negoziabili - ciò vuol dire che il confronto di queste primarie - apparentemente lesivo delle capacità Repubblicane di sconfiggere alla fine Obama per via delle asprezze divisive con cui si svolge (peraltro tipiche di un confronto da primarie, non più aspro quest’anno, insomma, di altre occasioni analoghe precedenti) - non può che rafforzare - e questo è il secondo elemento strutturale da sottolineare - un certo tipo di proposta politica.
Quale? Ovviamente quella esattamente inversa a quella seguita e perseguita dall’Amministrazione Obama su molti argomenti, ivi compresi, e per primi, i “principì non negoziabili”, come certo non noi, ma il capo dei vescovi cattolici statunitensi, mons. Timothy M. Dolan, cardinale arcivescovo di New York - seguito apertamente da molti suoi confratelli nell’episcopato - ricorda ormai da mesi con uscite pubbliche, documenti impegnativi e prese di posizione che conoscono pochi precedenti.
Per comprendersi meglio ancora: nessuno dei candidati Repubblicani oggi in corsa (e così era anche quando nella competizione erano ancora attivi Michele Bachmann, Rick Perry e Jon Huntsman, e persino Herman Cain, ritiratosi prima che tutto iniziasse) appartiene all’ala liberal del Partito Repubblicano. Tutti sono "più a destra" dell’uomo che nel 2008 fu scelto dal Partito Repubblicano per sfidare Obama, cioè il senatore dell’Arizona John McCain. E il candidato alle primarie che quattro anni fa appariva più "a destra", o tra i "più a destra", Romney, oggi sembra quello più "a sinistra" (per i termini del discorso politico statunitense, una "Sinistra" comunque interna al mondo Repubblicano). E "Destra", qui, ricordiamolo, significa anche difesa dei "princìpi non negoziabili", quelli che invece la "Sinistra" obamiana (non solo interna al mondo Democratico) vuole svendere.
Avendo presente che l’obiettivo da battere è, per gli statunitensi, lo statalismo immorale di Obama e il suo relativismo aggressivo, questi dati di fatto sono, nel loro complesso, di assoluto primo piano.
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