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PIRANDELLO. GENIO DEL NOVECENTO/ 6

La manovella di Serafino contro le macchine "padroni"

Nel 1930 Pirandello si reca ad Hollywood per le riprese del film tratto dalla sua opera teatrale Come tu mi vuoi. L’approccio alla tecnologia e alle macchine è, però, problematico e critico. L’intellettuale comprende che la tecnologia e le macchine talvolta non favoriscono la comunicazione, ma la complicano.

Cultura 07_12_2014
Luigi Pirandello

Nel 1930 Pirandello si reca ad Hollywood per le riprese del film tratto dalla sua opera teatrale Come tu mi vuoi. L’interesse del genio siciliano per la settima arte era già vivo da tempo. L’approccio alla tecnologia e alle macchine è, però, problematico e critico. L’intellettuale comprende che la tecnologia e le macchine talvolta non favoriscono la comunicazione, ma, al contrario, la complicano, creando dei filtri o delle barriere. Amante del cinema, lo scrittore siciliano percepisce tutta la pericolosità dell’immagine che può diventare un’ulteriore separazione tra noi e la realtà che guardiamo. Per questo Pirandello dedica un’intera opera all’innovazione tecnologica e al mondo della macchina che fa irruzione nella vita degli uomini. 

Pubblicato nel 1916 e nel 1917 con il titolo Si gira, il romanzo appare nella sua edizione definitiva nel 1925 come I quaderni di Serafino Gubbio operatore. Composto in sette quaderni divisi in capitoli, il testo si presenta con una forma diaristica. Non capito e non apprezzato dal pubblico e dalla critica contemporanei, l’opera viene riscoperta solo più tardi, dagli anni Settanta in poi, quando si inizia a cogliere il suo valore profetico. Operatore alla macchina da presa cinematografica, Serafino Gubbio registra in una sorta di diario le sue riflessioni e la sua condanna a essere «una mano che muove la manovella». «L’uomo che prima, poeta, deificava i suoi sentimenti e li adorava, buttati via i sentimenti, ingombro non solo inutile, ma anche dannoso, […] s’è messo a fabbricar di ferro, d’acciajo le sue nuove divinità ed è divenuto servo e schiavo di esse. Viva la macchina che meccanizza la vita!»

Tutto l’ingegno dell’uomo è stato messo al servizio della creazione di quei “mostri” (nel senso etimologico del termine, cioè «prodigi o cose sorprendenti»), che dovevano essere i nostri strumenti, mentre sono finiti per diventare i nostri padroni. In maniera drammatica, quando viene a mancare l’io, trionfa la stupidità della macchina. Annota Serafino Gubbio: «È per forza il trionfo della stupidità, dopo tanto ingegno e tanto studio spesi per la creazione di questi mostri, che dovevano rimanere strumenti e sono divenuti invece, per forza, i nostri padroni. La macchina è fatta per agire, per muoversi, ha bisogno d’ingojarsi la nostra anima, di divorar la nostra vita. E come volete che ce le ridiano, l’anima e la vita, in produzione centuplicata e continua, le macchine?».

Il nome del protagonista è molto significativo. Se da un lato “Serafino” richiama agli angeli e alla natura spirituale di esseri che sono puro spirito deprivato del corpo, dall’altra parte “Gubbio” è chiaramente luogo francescano. Che ci sia nel nome un’allusione ai versi danteschi prelevati dal canto XI del Paradiso dedicato proprio a san Francesco: «L’un fu tutto serafico in ardore»? Pirandello ha, forse, voluto sottolineare la dimensione tutta spirituale del personaggio, come se vivesse solo di pensiero, di spirito, già distaccato dalla corporeità e dalla fisicità, incline solo al cerebralismo. Serafino Gubbio riflette sul mondo della casa cinematografica Cosmograph, specchio del panorama contemporaneo, dominato dalle rivalità e dall’arrivismo, ove sempre più i valori tradizionali non trovano ospitalità, ma trionfa la sete del profitto. Sull’altare dell’idolo del guadagno e della carriera sono sacrificati la creatività, l’ingegno, l’amicizia, la comunicazione vera ed autentica. 

Un giorno il protagonista sta filmando una scena del film La donna e la tigre all’interno della gabbia della belva feroce. Innamorato dell’attrice russa Nestoroff e non ricambiato, l’attore Aldo Nuti dovrebbe sparare al felino per difendere la donna. Tutto è previsto dalla sceneggiatura. Ma Nuti rinnega il copione e, per vendicarsi della mancata corrispondenza amorosa, uccide la donna, al posto della tigre che, poi, lo sbranerà. In maniera impassibile, come succube della cinepresa, Serafino riprenderà tutta la scena, senza intervenire e, colpito da afasia, rinuncerà per sempre alla vita, ad amare, a comunicare, a rivelare la propria interiorità. Film e vita finiscono per coincidere. La vita è stata data in pasto alla macchina. Quella scena atroce, strappata alla vita e immortalata nel cinema, susciterà la morbosa curiosità del pubblico e conquisterà incassi straordinari. 

Una volta ancora, il genio di Pirandello ha profetizzato i futuri scenari del mondo cinematografico e televisivo: quella realtà che diventa fiction oppure reality, in cui solo all’apparenza tutto è naturale, ma in realtà tutto è manovrato secondo una regia. L’uomo divenuto automa mette in scena se stesso, fingendo di non fingere, nel gergo di Machiavelli “dissimulando”. Serafino Gubbio concluderà i suoi quaderni scrivendo: «Voglio restare così. Il tempo è questo; la vita è questa; e nel senso che do alla mia professione, voglio seguitare così- solo, muto e impassibile- a far l’operatore. La scena è pronta? -Attenti, si gira…»

Serafino rappresenta l’iperbolica amplificazione delle difficoltà di comunicazione autentica che caratterizzano l’essere umano. La perdita della parola è, in un certo senso, il rischio che corre un uomo che sempre più utilizza degli strumenti di comunicazione che non hanno lo stesso calore della viva parola. Quando l’uomo dimentica che i mezzi sono solo modalità di comunicazioni utili in talune circostanze, li trasforma nella propria voce. Si perde l’integralità della comunicazione, che è affidata a sguardi, a gesti, a toni di voce, all’affetto, e permane solo il messaggio o, meglio, il presunto fine del messaggio. Diventano, così, importanti non tanto l’intensità e la profondità della comunicazione, ma la sua rapidità e la sua frequenza. Sono, forse, così più facilmente comprensibili alcuni scenari comunicativi del terzo millennio.

L’esistenza appare sempre più frenetica e disumana, tanto che Serafino si domanda «se veramente tutto questo fragoroso e vertiginoso meccanismo della vita, che di giorno in giorno sempre più si complica e s’accelera, non abbia ridotta l’umanità in tale stato di follia che presto proromperà frenetica a sconvolgere e a distruggere tutto. Sarebbe, forse, in fin dei conti, tanto di guadagnato. Non per altro, badiamo: per fare una volta tanto punto e daccapo». La palingenesi che toccherà al mondo, profetata ne I quaderni di Serafino Gubbio, è in sintonia con l’ultima pagina de La coscienza di Zeno, il romanzo sveviano che circolava negli stessi anni che si conclude con la profezia di un occhialuto uomo che costruirà un’arma pericolosissima che poi sarà collocata da qualcuno più pazzo al centro della Terra: un’esplosione porterà all’annientamento di tutte le forme di vita e di tutte le malattie.