La lunga scia di sangue di Boko Haram
L'attentato alla sede ONU del 26 agosto è solo l'ultimo capitolo di una storia di terrore. Odiano l'Occidente,
e per dirlo i terroristi islamici uccidono.
L’attentato kamikaze che il 26 agosto ha parzialmente distrutto la sede delle Nazioni Unite di Abuja, capitale della Nigeria, uccidendo 18 persone e ferendone 70, è stato rivendicato da Boko Haram, il movimento fondamentalista islamico che dal 2002 combatte per trasformare la Nigeria in uno stato guidato dalla legge coranica e che, come indica il suo nome, considera haram, proibita, la civiltà occidentale in ogni sua espressione.
Formatosi nello Stato nordorientale di Borno, uno dei dodici Stati settentrionali a maggioranza islamica della federazione nigeriana, Boko Haram ha usato la violenza fin dalle origini in un crescendo di azioni terroristiche che ormai da tempo registrano una frequenza quasi quotidiana. Fino allo scorso anno però il movimento aveva limitato le proprie azioni al nord, operando soprattutto nel Borno e nella sua capitale Maiduguri dove, ogni anno, centinaia di persone perdono la vita in attentati e rappresaglie - i morti sono 250 dall’inizio del 2011 - con gravi ripercussioni negative sulle attività sociali ed economiche e in particolare sugli immigrati dal sud, di religione cristiana, che difatti a migliaia hanno già lasciato il Borno temendo per la loro vita.
Poi, anche grazie al fatto di essere riuscito, a quanto pare, a reclutare seguaci tra le forze dell’ordine, Boko Haram ha esteso il proprio raggio d’azione, riuscendo a mettere a segno degli attentati persino nella capitale Abuja. A Capodanno ha fatto esplodere una bomba nel Mammy Market, un affollato mercato vicino a una caserma militare, provocando quattro vittime. A giugno con un attentato suicida ha colpito il quartier generale della polizia uccidendo tre persone. A luglio ha piazzato un ordigno esplosivo all’esterno di una chiesa protestante, a pochi chilometri dalla capitale, causando altre tre vittime.
Aver scelto di attaccare le Nazioni Unite, e quindi di compiere un atto di risonanza internazionale, sembra una risposta assai minacciosa alla proposta formulata nelle scorse settimane dal governo nigeriano di aprire un dialogo, offrendo ai militanti Boko Haram amnistia e buon trattamento in cambio della rinuncia alla lotta armata. Può anche voler dire che il movimento confida e può contare più che mai sul sostegno di una parte consistente della popolazione islamica, in effetti tanto più scontenta della situazione nazionale da quando, ad aprile, il presidente Goodluck Jonathan, cristiano e originario del sud, è stato confermato nella carica vincendo al primo turno le elezioni con quasi il doppio dei voti rispetto al suo avversario, islamico del nord, Mohammed Buhari.
Il 29 maggio, il giorno in cui ha prestato giuramento, il presidente Jonathan ha esortato la popolazione all’unione - «insieme per una nuova Nigeria» è stato il suo appello - e ha annunciato un colossale programma di investimenti che dovrebbe in pochi anni garantire finalmente lo sviluppo economico del paese, da decenni il primo produttore africano di petrolio e tuttavia classificato tra i più poveri del mondo, con quasi due terzi degli abitanti sotto la soglia della povertà e l’84% con un reddito inferiore a due dollari al giorno.
Le sfide da vincere per realizzare unione e sviluppo economico, fattori che vanno di pari passo, sono essenzialmente due. La prima è in effetti superare il tribalismo, rafforzato in Nigeria dalle divisioni religiose, a loro volta accresciute dalla penetrazione del fondamentalismo islamico. La seconda sfida è riuscire a debellare la piaga della corruzione che in mezzo secolo ha prosciugato immense risorse nazionali lasciando nella miseria non soltanto il nord, ma persino gli stati meridionali nei quali si concentrano le ricchezze petrolifere. Anche su questo fronte, però, le notizie non sono buone.
Un rapporto appena pubblicato dall’organizzazione non governativa Human Right Watch rivela, sulla base delle indagini condotte, che in Nigeria, nonostante le solenni dichiarazioni di principio e alcuni promettenti passi avanti, il sistema politico continua a premiare la corruzione invece che punirla. Neanche la Commissione per i crimini economici e finanziari, istituita nel 2002, ha conseguito finora risultati significativi: in nove anni 30 soltanto sono stati i politici indagati, quattro quelli giudicati colpevoli, neanche uno dei quali è finito in prigione.
Tuttavia sconfiggere la corruzione può rivelarsi più facile che eliminare le divisioni etniche e religiose.