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CAUSA DI CANONIZZAZIONE

La lezione dei martiri di Otranto

Oltre 500 anni fa un'intera popolazione preferì essere trucidata dai turchi piuttosto che convertirsi all'islam. Un popolo cosciente della propria identità, pronto a dare testimonianza. Una lezione per quanti oggi invocano il dialogo censurando la propria identità.

Ecclesia 23_12_2012
I martiri di Otranto

E' stato annunciato in questi giorni che con l’autorizzazione del Santo Padre, la Congregazione delle Cause dei Santi emanerà il decreto relativo al miracolo attribuito all’intercessione dei Beati Antonio Primaldo e Compagni, Martiri, uccisi il 13 agosto 1480 ad Otranto.

A oltre 500 anni di distanza la storia di questi martiri ha un grande insegnamento per la nostra realtà odierna. Come riporta mons. Grazio Gianfreda, nel suo libro “Otranto nella Storia”, nel giugno 1480 Maometto II toglie l'assedio a Rodi e dirige la sua flotta verso l'Adriatico. La mattina di venerdì 29 luglio 1480, dagli spalti delle mura di Otranto si scorge all'orizzonte l’”armata della Mezzaluna”, forte di 90 galee, 15 maone, 48 galeotte, con 18 mila soldati a bordo.

Otranto fu una delle prime città della Puglia, a convertirsi al cristianesimo. I primi gruppi di monaci che lì sorsero, subirono forse l'influenza di sant'Atanasio, che forse vi passò verso la metà del secolo IV e seguendo i canoni del monachesimo orientale, di san Basilio in particolare. Essi compresero l’importanza della conservazione e della trasmissione del sapere e alla fine del secolo X crearono una scuola, nel Monastero di San Nicola in Casole: chiunque volesse imparare il greco o il latino, poteva rimanere nell'abbazia e aveva a sua disposizione, e senza alcuna spesa, vitto, alloggio e un maestro. La cultura e la fede cristiana, che si diffusero così nella popolazione, trovarono espressione in due grandi capolavori: la cattedrale di Otranto, costruita in soli otto anni, tra il 1080 e il 1088 e, all'interno della stessa, il grandioso mosaico pavimentale. Nel 1095, proprio dalla cattedrale, il vescovo impartì la benedizione ai 12mila crociati che da Otranto, al comando di Boemondo, partivano per liberare dagli infedeli il santo Sepolcro.
Dopo quasi 400 anni, la città, complice l'inerzia dei principi e dei re cristiani, viene posta sotto l’assedio dell'armata turca di Maometto II. Si compie così la profezia di un grande Santo, Francesco di Paola, che dall’eremo di Paternò aveva detto: “Ah infelice città, di quanti cadaveri ti veggo piena! quanto sangue cristiano s'ha da spargere sopra di te”.

I musulmani sbarcano a qualche chilometro dalla città, vicino a Roca e inviano a Otranto un interprete, che propone una resa vantaggiosa ai cittadini: se non resisteranno, saranno lasciati liberi o di rimanere, senza subire alcun danno, o di andar via. Uno dei maggiorenti della città, il vecchio Ladislao De Marco, dice all’interprete: “Se il Pascià vuole Otranto, venga a prenderla con le armi, perché dietro le mura ci sono i petti dei cittadini”. Sono proprio i cittadini a difendere la loro città, da soli, perché la maggior parte dei soldati, di notte, se la dà a gambe.
L'assedio dura 15 giorni. I musulmani aprono una breccia in uno dei punti più deboli delle mura e entrano nella città. Massacrano tutti coloro che incontrano. Molti cercano rifugio nella Cattedrale, ma questa viene assalita e presa. I musulmani entrano nel tempio.

Si legge nella traduzione italiana ad opera di De Ferraris-Galateo del “De Situ Japigia”, la cui prima edizione fu pubblicata a Basilea nel 1558: “Durante la notte precedente quello sventurato giorno, l'arcivescovo Stefano [...] aveva confortato tutto il popolo col divino sacramento dell'Eucarestia per la battaglia del mattino seguente, che lui aveva previsto”. I turchi, “raggiunto l'arcivescovo che sedeva sul suo trono vestito con abiti pontificali e con in mano la croce, lo interrogarono chi fosse; ed egli intrepidamente rispose: Sono il rettore di questo popolo e indegnamente preposto alle pecore del gregge di Cristo. E dicendogli uno di loro: ‘smetti di nominare Cristo, Maometto è quello che ora regna, non Cristo’, egli rispose indirizzandosi a tutti: ‘O miseri ed infelici, perché vi ingannate invano? Poiché Maometto, vostro legislatore, per la sua empietà soffre nell'inferno con Lucifero e gli altri demoni le meritate pene eterne; ed anche voi, se non vi convertite a Cristo e non ubbidite ai suoi comandamenti, sarete nello stesso modo cruciati con lui, in eterno’. Aveva appena terminato di proferire queste parole quando uno di loro, impugnata la scimitarra, con un sol colpo gli recise la testa; e, così decollato sulla propria sedia, divenne martire di Cristo nell'anno del Signore 1480, l'11 di agosto”.

Il 13 agosto, compiuto il saccheggio, il pascià chiede che gli sia presentata la lista di tutti gli abitanti fatti schiavi, escludendo le donne e i ragazzi al di sotto dei 15 anni: “In numero di circa ottocento furono presentati al Pascià che aveva al suo fianco un miserrimo prete, nativo di Calabria, di nome Giovanni, apostata della fede. Costui impiegò la satanica sua eloquenza a fin di persuadere a' nostri santi che, abbandonato Cristo, abbracciassero il maomettismo sicuri della buona grazia d'Acmet, il quale accordava loro vita, sostanze e tutti quei beni che godevano nella patria; in contrario sarebbero stati tutti trucidati. Tra quegli eroi ve n'ebbe uno di nome Antonio Primaldo, sarto di professione, d'età provetto, ma pieno di religione e di fervore. Questi a nome di tutti rispose: ‘Credere tutti in Gesù Cristo, figlio di Dio, ed essere pronti a morire mille volte per lui’. E voltatosi ai Cristiani disse queste parole: ‘Fratelli miei, sino oggi abbiamo combattuto per defensione della Patria e per salvar la vita e per li Signori nostri temporali, ora è tempo che combattiamo per salvar l'anime nostre per il nostro Signore, quale essendo morto per noi in Croce conviene che noi moriamo per esso, stando saldi e costanti nella Fede e con questa morte temporale guadagneremo la vita eterna e la corona del martirio’. A queste parole incominciarono a gridare tutti a una voce con molto fervore che più tosto volevano mille volte morire con qual si voglia sorta di morte che di rinnegar Cristo”.

A queste parole, il pascià, infuriato, condanna tutti a morte. La mattina seguente “quei prodi campioni della santa fede con la fune al collo e con le mani legate dietro le spalle, furono menati al vicino colle della Minerva. Con l'umile portamento, con l'aria divota e serena e col frequente invocare i nomi di Gesù e di Maria, facevano di sé spettacolo glorioso a Dio e gradito agli Angeli. Tutto quel tratto di strada, che corre dalla porta antica di mare fino al colle, risonò di sante preci, colle quali quelle anime grandi imploravano la grazia di consumare il sacrifizio delle loro vite. Si confortavano l'un altro a pigliar pazientemente il martirio e questo faceva il padre al figlio, e il figlio al padre, il fratello al fratello, l'amico all'amico, il compagno al compagno, con molto fervore e con molta allegrezza. Girava intorno ai cristiani un turco importuno con alla mano una tabella vergata in carattere arabo. L'apostata interprete la presentava a ciascuno e ne faceva la spiegazione, dicendo: Chi vuol credere a questa avrà salva la vita; altrimenti sarà ucciso. Ratificarono tutti la professione di fede e la generosa risposta data innanzi: onde il tiranno comandò che si venisse alla decapitazione, e, prima che agli altri, fosse reciso il capo a quel vecchio Primaldo, a lui odiosissimo, perché non rifiniva di far da apostolo co' suoi. Anzi in questi ultimi momenti, prima di chinare la testa sul sasso, aggiungeva a' commilitoni che vedeva il cielo aperto e gli angeli confortatori; che stessero saldi nella fede e mirassero il cielo già aperto a riceverli. Piegò la fronte, gli fu spiccata la testa, ma il busto si rizzò in piedi: e ad onta degli sforzi de' carnefici, restò immobile, finché tutti non furono decollati. Il portento evidente ed oltremodo strepitoso sarebbe stata lezione di salute a quegl'infedeli, se non fossero stati ribelli a quel lume che illumina ognuno che vive nel mondo. Un solo carnefice, di nome Berlabei profittò avventurosamente del miracolo, e, protestandosi ad alta voce cristiano, fu condannato alla pena del palo”. Il 14 agosto, vigilia dell'Assunzione al Cielo di Maria, i corpi degli ottocento martiri, straziati, sono sul colle della Minerva. I loro resti sono conservati e venerati nella Cattedrale di Otranto.

Questa terribile e al tempo stesso meravigliosa pagina di storia e di fede appartiene alla nostra identità cristiana. Indica innanzitutto un connotato essenziale dell’essere credenti: quello della testimonianza, che può arrivare fino al martirio. Un martirio “inusuale”, perché non coinvolge una o più persone, com’è accaduto in duemila anni di storia dei cattolici: è un’intera città che si immola, che segue l’esempio del vecchio Primaldo, che conforta i suoi concittadini e li invita ad essere saldi nella fede e a mirare il cielo già aperto a riceverli. Gli ottocento martiri diventano un corpo unico ed è singolare che si conosca solo il nome di Primaldo, come a significare il fatto che è un popolo intero, unito, ad affrontare la terribile prova. Quei martiri – insieme al loro vescovo, che cita Lucifero, allora nelle Chiese lo si faceva - erano consapevoli delle loro radici e della loro identità cristiana. Sacrificano le loro vite per questa ragione. Per difenderle. Non sono attratti dal nuovo, dalla “modernità” di quell’epoca, che stava per soppiantare principi e valori antichi, quegli stessi principi che loro avevano imparato attraverso la cultura e la fede dei monaci. La loro esistenza era un tutt’uno alla loro fede e costituiva la loro identità. Avrebbero potuto abiurarla, ma sarebbe divenuta una vita priva di senso, perché priva del suo connotato essenziale: l’amore per il loro Dio, il Dio dei cristiani.

Dovrebbero leggerla e rileggerla questa pagina di storia, tutti coloro che oggi sono attratti da quell’ecumenismo d’accatto, che in forza del leit motiv del dialogo e privi della consapevolezza della loro identità, parlano di accoglienza e d’integrazione, fino ad arrivare – dai pulpiti – a chiedere la costruzione di moschee per i musulmani. Il tema si lega a quello dell’immigrazione, che rappresenta una questione di portata formidabile per l’intero mondo occidentale e per l’Europa in particolare, sottoposta, di questo passo, al rischio della sua islamizzazione. Dice la “Caritas in veritate” di Benedetto XVI: “E’ un fenomeno che impressiona per la quantità di persone coinvolte, per le problematiche sociali, economiche, politiche, culturali e religiose che solleva, per le sfide drammatiche che pone alle comunità nazionali e a quella internazionale (…) Bisogna saper coniugare solidarietà e rispetto delle leggi, affinché non venga stravolta la convivenza sociale e si tenga conto dei principi di diritto e della tradizione culturale e anche religiosa da cui trae origine la nazione italiana”.

Il monito del Papa viene costantemente disatteso nel nostro paese ed occorre prendere atto di questa realtà. Tendiamo a rispettare le culture altrui, come se questo volesse dire che ci sono diritti e doveri separati per gli italiani e per coloro che provengono da altri Paesi, che in base ad alcune sentenze di magistrati “creativi”, sempre più numerose, avrebbero diritto a far valere, nel nostro Paese, le loro tradizioni, anche se queste comportassero l’uccisione della loro figlia che si è innamorata di un occidentale.

Solo un’Europa consapevole della sua identità, è in grado di attuare un’accoglienza e integrazione vere delle donne e degli uomini che migrano sempre più numerosi nel suo territorio, facendo rispettare a queste persone – come loro primario dovere – le leggi dei territori che scelgono per la loro nuova vita. Se questa consapevolezza viene meno, si rischia di soccombere, di farsi sopraffare, di cancellare millenni di storia e di civiltà. Di annientare, dalla nostra memoria, anche coloro che sono morti per affermarla quell’identità, come gli 800 “anonimi” martiri di Otranto di quella mattina di agosto del 1480.