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INTERVISTA A BERTOLINI

«La guerra di Israele risente della debolezza degli Usa»

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«Da un globalismo di impronta americana si sta passando ad un multilateralismo che lascia spazio anche ad attori che in precedenza non avrebbero destato troppe preoccupazioni». Il generale Bertolini alla Bussola, tra Israele e Gaza e il ruolo indebolito degli Usa: «Il sud del mondo è in ebollizione». 

Attualità 18_10_2023

Era dal 1973 che Israele non dichiarava lo “stato di guerra”. «Hamas, probabilmente, contava di costringere Israele a una trattativa, vista l’impossibilità di liberare il grande numero di ostaggi che è riuscita a catturare in tutta la Striscia», sostiene in questa intervista alla Bussola il generale Marco Bertolini, già Comandante del Coi e della Folgore, con un ruolo di comando in missioni internazionali tra Afghanistan, Libano, Somalia, Bosnia e Kosovo. Con lui proviamo a ricostruire il conflitto in Israele a una settimana dall’attacco di Hamas. 

Secondo lei siamo realmente al cospetto di un “11 settembre israeliano”? 
Sicuramente il paragone è azzeccato. Nel 2001, per la prima volta, gli Stati Uniti si mostrarono vulnerabili agli occhi di tutto il mondo. Una settimana fa Israele, che aveva la nomea di essere invincibile, con servizi informativi capaci di prevedere ogni cosa, s’è lasciato sopraffare da Hamas. Questo è sicuramente un primo legame tra l’11 settembre 2001 e il 7 ottobre 2023. Va considerato, poi, che dopo l’11 settembre il mondo è effettivamente cambiato: c’è stata una guerra in Iraq che ha distrutto il Paese e una guerra in Afghanistan che dopo vent’anni ha visto la ritirata di un’ampia alleanza occidentale, senza che la situazione sia migliorata. Ci sono state le Primavere arabe e ci troviamo di fronte ad una guerra in Ucraina che rischia pericolose escalation. Siamo, insomma, in un mondo più insicuro che potrebbe ulteriormente peggiorare con un conflitto generalizzato.

È la conferma di quella lettura per cui Israele non è capace di dimostrare ai propri vicini che può esistere senza lappoggio dall’esterno, e, pertanto, l’attacco di Hamas è arrivato nel momento in cui il suo unico grande protettore, gli Usa, è sembrato indebolito?
Che Israele da solo non possa sopravvivere è vero. In questi tre quarti di secolo ha avuto uno sponsor potente, gli Stati Uniti, che lo ha rifornito di armi e mezzi di difesa e che spartisce con lui buona parte delle sue risorse di intelligence. È chiaro che nel momento in cui questo sponsor entra in crisi, anche Israele è più vulnerabile. E che gli Usa risentano negativamente degli esiti assolutamente insoddisfacenti per i loro interessi della guerra in Ucraina, ormai, è sotto gli occhi di tutti.

Come leggere il conflitto, allora?
Faremmo un errore a considerarlo come un dramma a sé stante: insiste, infatti, in quell’ampia area di crisi che si estende dal mar Nero e arriva al Mediterraneo Orientale. Una crisi che non è certamente iniziata oggi, ma che affonda le radici nell’epoca nella quale nacque Israele e che ha subito un’ulteriore drammatizzazione con le primavere arabe: hanno distrutto interi paesi e provocato altre tensioni delle quali la guerra in Siria è la principale.

Possibile che si sia dimenticato l’elemento di destabilizzazione che hanno rappresentato e il ruolo che ebbero gli Usa di Obama?
Le primavere arabe hanno avuto una funzione epocale: la Libia è stata distrutta, in nome della democrazia. In Egitto ci sono stati due colpi di Stato. In Siria è iniziata una guerra civile spaventosa che ha provocato centinaia di migliaia di morti e che ha visto le prime vere vittime nelle cospicue comunità cristiane, spesso protette proprio dall’esercito siriano se non addirittura dalle milizie Hezbollah giunte in suo supporto dal Libano: non dimentichiamo che dopo Libano ed Egitto, la Siria era il Paese che ospitava più cristiani e che sono stati massacrati nel nostro disinteresse. Comunque sia, quest’area che è collegata all’Ucraina - per il fatto che la Siria è un alleato di ferro della Russia - è entrata in una ulteriore crisi. E se questa crisi può esser letta come un tentativo da parte di Hamas di "sfruttare una supposta debolezza" degli Stati Uniti come conseguenza degli sviluppi in Ucraina, potrebbe anche lasciare spazio ad altre interpretazioni.

Quali?
Si tratta di un evento che mette ancora più caos in un’area già di per sé caotica. Forse la debolezza americana ha un ruolo in questa situazione, ma più che altro direi che il ruolo vero ce l’ha la fase di trasformazione epocale che stiamo attraversando. 

Ci spieghi.
È la fase in cui quell’ordine del dopo guerra che sembrava indiscutibile, non è più tale. Da un globalismo di impronta americana si sta passando ad un multilateralismo che lascia spazio anche ad attori che in precedenza non avrebbero destato troppe preoccupazioni. Ad esempio, nessuno avrebbe mai creduto possibile che l’intelligence e l’esercito israeliano potessero essere colti alla sprovvista. Si stanno rimescolando i ruoli e il Medio Oriente vede acuirsi tutte le tensioni che si sono cumulate per decenni: c’è tutto il sud del mondo in ebollizione. 

Perché se si fosse evitato il conflitto in Ucraina, a Gaza, probabilmente, questo non sarebbe successo?
I problemi tra Israele e i palestinesi c’erano già. Non sono nuovi i tentativi di incursione, così come il lancio di razzi. Ma la novità è che ora Hamas ha osato fare quello che in condizioni normali non avrebbe fatto: un attacco in grande stile, multimodale e multiambientale, infiltrando molti miliziani in territorio israeliano e usando mezzi tecnologici significativi. È la crisi in Ucraina che ha contribuito a erodere il mito dell’invincibilità occidentale. Zelensky, per quanto appoggiato da tutto l’Occidente, in particolare dagli Stati Uniti, in realtà, dopo quasi due anni di guerra, resta privo del controllo di larga parte del Paese e ha subito perdite umane e di mezzi impressionanti. Si può discutere sul fatto che in certi territori sia leggermente avanzato, o meno, di qualche chilometro, ma la verità è che ha perso larga parte del proprio territorio e non ha la forza di recuperarlo. Questo condiziona sicuramente l'aspetto psicologico dell’altra parte del mondo che assiste alla “caduta degli dei”. Tutto ciò ha fatto da detonatore.

Fino a pochi giorni fa sembrava imminente una svolta storica in Medio Oriente, cioè il riconoscimento diplomatico di Israele da parte della più grande potenza araba. Il Regno dell’Arabia Saudita, invece, è intervenuto in merito all’attacco del 7 ottobre giudicando Israele responsabile per le sue ripetute provocazioni e la privazione di diritti inflitte ai palestinesi. In virtù di questo, ha ragione Hamas a vedere alla sua portata una vittoria strategica sul piano geopolitico? 
Sì, a meno che non si debba dare ragione alle dietrologie (che vogliono l'attacco di Hamas come voluto da Israele), effettivamente questa possibile sconfitta strategica potrebbe profilarsi. E sarebbe una sconfitta che non riguarda soltanto le amministrazioni democratiche americane, quella di Obama prima e di Biden adesso, ma anche quella di Trump che è stato lo sponsor del patto di Abramo. In effetti quel che sta accadendo in queste ore ha rimesso tutto in discussione. Credo che un momento importante di questa nuova condizione si sia verificato quando, grazie alla Cina, l’Arabia Saudita si era riavvicinata all’Iran - il grande nemico degli Usa nell’area. Così facendo si era avuta una prima saldatura tra varie realtà arabe che si pongono in maniera diversa di fronte al problema israeliano: radicale l’Iran e possibilista l’Arabia Saudita. 

E tutti gli altri vicini di Israele?
È una dato che, per quanto le varie leadership arabe possano mettersi di fronte al problema israelo-palestinese con varie angolature, dovute ai propri specifici interessi, l’opinione pubblica degli stessi paesi è unanimemente schierata a favore dei palestinesi. E di questo i rispettivi governi non possono non tenere conto. Anche ʿAbd Allāh, re della Giordania, un Paese con una forte presenza militare americana, ha dato disposizioni per rifornire Gaza e sopperire all’assedio, anche energetico, messo in atto da Tel Aviv; l’Egitto si è schierato, seppur con motivazioni umanitarie e con grande attenzione; in Qatar la bandiera palestinese è stata esposta ovunque, per non parlare del Libano, dove Hezbollah ha manifestato compiacimento per l’azione di Hamas nonostante, tradizionalmente, le due organizzazioni siano su fronti opposti in Siria. E poi ci sono gli Stati islamici non arabi, come Iran e Turchia. Erdogan dimostra di non avere più remore a prendere le distanze dal mondo occidentale e auspica un piano di pace che tenga conto dei confini del ’67: il contrario di quello che vorrebbe Tel Aviv, insomma. 

L’Europa non gioca nessun ruolo in questa scacchiera?
L’Europa, come sempre, segue in silenzio. È irrilevante in Ucraina, incapace di portare pace nel Continente e utile, invece, solo a suonare la grancassa della guerra come decretato da Biden. E se è ininfluente per la soluzione di un conflitto che la riguarda direttamente, figuriamoci in Israele: non interverrà nei confronti di una guerra che potrebbe cambiare decisamente la fisionomia del Medio Oriente. E questo è un peccato per l’Europa in generale, e per l’Italia in particolare che è al centro del Mediterraneo e dovrebbe essere particolarmente attiva.