La gran voglia statalista di commissariare la Lombardia
La Lombardia è la regione italiana con il più alto numero di morti in tutta Italia. È una delle regioni più contagiate, in assoluto, in Europa. Ora subisce un attacco concentrico di media e politica. Ma non riguarda solo il coronavirus: è un attacco al modello lombardo e al principio di sussidiarietà della Dottrina Sociale, al cuore della sua sanità
La Lombardia è la regione italiana con il più alto numero di contagi e il più alto numero di morti (quasi la metà del totale) in tutta Italia. È una delle regioni più contagiate, in assoluto, in Europa. È da tener conto l’attenuante dell’effetto sorpresa: è stata anche, assieme al Veneto, la prima regione del mondo occidentale ad essere colpita dalla pandemia, subito dopo Cina, Corea del Sud e Iran. Però il Veneto è riuscito a mantenere il controllo della situazione, la Lombardia molto meno. Quindi, indubbiamente vi sono errori di strategia che dovranno essere studiati bene e corretti per evitare che si ripeta la tragedia. Oltre agli errori di strategia, vi sono stati sicuramente gravi comportamenti delle amministrazioni ospedaliere e dei gestori delle case di riposo pubbliche e private, su cui sta già indagando la magistratura per accertare le responsabilità penali. Ma l’attacco che la Lombardia sta subendo in queste settimane, da parte del governo, dei partiti politici di sinistra e della quasi unanimità dei media, va ben oltre alle critiche sulla strategia adottata e sulle responsabilità.
La prima e più grave critica mossa alla Lombardia è, ad esempio, molto poco pertinente. Si contesta alla giunta Fontana di non aver chiuso la provincia di Bergamo (o per lo meno i comuni più colpiti) in una nuova zona rossa, come quella che a febbraio era stata imposta a una decina di comuni della provincia di Lodi. Ma la zona rossa viene decisa dallo Stato o dalla Regione? Non occorre un grande sforzo di memoria per ricordare come la giunta di Attilio Fontana chiedesse ripetutamente il permesso al governo per imporre nuove zone rosse e come il governo facesse orecchie da mercante. Finché, arrivati alla sera dell’8 marzo, quando l’istituzione delle nuove zone rosse era stata già anticipata dalla stampa, il governo Conte ha pre-annunciato l’imposizione di una zona “rosa” su tutta la Lombardia, prima ancora di presentare il decreto. Con conseguente apertura delle precedenti zone rosse, i cui cittadini potevano da quel momento girare per tutto il territorio regionale (ma non uscirne). Pareva un piano perfetto: per diffondere il contagio in Lombardia. Ma è fallito a causa della fuga di chi lombardo non era e in Lombardia non ci voleva restare. Da lì la decisione di estendere il lockdown su scala nazionale. Ora il governo imputa la responsabilità alla Lombardia, ma la risposta è che Milano ha sbagliato perché ha atteso le decisioni di Roma, invece di impuntarsi, disobbedire e agire autonomamente. Nel caso lo avessero fatto (legalmente era possibile), come avrebbe reagito il governo? Cosa direbbero oggi i media?
La strategia lombarda è fallita per mancanza di controllo del territorio. Il Veneto dimostra che la via giusta è quella dei test a tappeto e dell’assistenza domiciliare, come sostiene il professor Andrea Crisanti, di Padova (vero stratega del successo veneto): “l’epidemia si sconfigge sul territorio, non negli ospedali”. Anche in questo caso, però, va ricordato che il Veneto ha agito autonomamente, incassando dure critiche (Walter Ricciardi, dall’Oms, definiva le scelte venete “anti-scientifiche”) mentre la Lombardia si atteneva alle linee guida di Roma, che a sua volta seguiva i consigli dell’Oms. La disposizione di fare meno tamponi, solo ai sintomatici di una certa gravità, viene dal Consiglio superiore della Sanità, in data 26 febbraio, sottovalutando il rischio di contagio degli infetti asintomatici. Anche in questo caso, la Lombardia ha subito un danno grave perché è stata troppo allineata al governo centrale, non perché ha commesso un errore in proprio.
In queste due critiche si nota un approccio molto selettivo: a fronte di responsabilità condivise di governo e Regione (considerando però che la responsabilità ultima è del governo), nel tritacarne mediatico finisce solo la Regione. Ci finisce chi ha obbedito a linee guida, non chi le ha elaborate. E questo già dovrebbe far comprendere che ci si trova di fronte a un attacco di tipo politico, più che a una ricerca spassionata di errori e responsabilità.
Poi ci sono le polemiche gratuite, tipiche del battibecco politico-mediatico. Abbiamo letto lodi sperticate per l’ospedale di Wuhan costruito in dieci giorni, ma di quello di Milano, costruito altrettanto rapidamente, troviamo solo sfottò su Guido Bertolaso, che ha coordinato le operazioni, reo di essersi ammalato di Covid-19 (“Bertoleso” è giunto a soprannominarlo Marco Travaglio), critiche sulla conferenza stampa di presentazione “troppo affollata” (ma non abbiamo notizie di persone che si siano ammalate nelle settimane successive) e la contestazione che nell’ospedale siano andati ancora pochissimi pazienti (dovevamo sperare che ci fossero più malati in terapia intensiva?).
Si nota un’altra caratteristica tipica dello scontro politico italiano: un grande strabismo degli accusatori. Il sindaco di Milano, Giuseppe Sala (Pd), fino a fine febbraio aveva lanciato lo slogan #Milanononsiferma, con tanto di spot virali (anche in senso letterale, purtroppo) su Internet. Mentre Fontana già chiedeva di allargare le zone rosse, Zingaretti (segretario del Pd) appoggiava Sala, prendendosi un aperitivo a Milano e ammalandosi una settimana dopo. Il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori (Pd), il 26 febbraio si faceva fotografare al ristorante e invitava i bergamaschi a non fermarsi. Però l’irresponsabilità raramente viene imputata a loro. Sala, al contrario, sarà a capo di una task force internazionale, la C40 Cities Climate Leadership Group, per una riapertura (ovviamente “sostenibile” ed ecologica) delle grandi metropoli del mondo.
Però non è solo una questione politica, l’attacco alla Lombardia diventa qualcosa di molto più profondo nel momento in cui viene condannato il suo “modello”. Il tipico esempio è quello del lungo articolo dello scrittore Roberto Saviano, pubblicato da Le Monde e in italiano da La Repubblica. Mescolando una contestazione letterario-moralistica a fatti di cronaca giudiziaria, Saviano condanna senza appello il fallimento della Lombardia, imputando la colpa a: sanità privata, mentalità “aziendalista” e “individualista”, movimento di Comunione e Liberazione (“colpevole” di aver promosso i medici cattolici obiettori… cosa c’entrino con la lotta al coronavirus non è dato saperlo), in generale il tessuto delle imprese lombarde e la politica di Formigoni prima e della Lega poi. Senza lanciare accuse specifiche, se non a Formigoni, di fatto Saviano continua a ritenere che la Mafia sia più forte al Nord che al Sud, perché al Nord c’è il “capitalismo” che per Saviano è il brodo di coltura delle mafie. Se Saviano ritiene che questa sia la causa principale del fallimento del sistema lombardo, dovrebbe poi anche spiegare perché in tempi normali, non di epidemia, in Lombardia immigrano persone da tutta Italia, anche solo per farsi curare. La mafia del Nord garantisce normalmente più efficienza di quella del Sud? O il modello lombardo è qualcos’altro? Senza contare che la Lombardia, anche in tempo di epidemia, ha perlomeno dimostrato efficienza e flessibilità: nel momento del bisogno, in appena un mese, ospedali pubblici e privati hanno raddoppiato i posti letto e costruito ospedali (come quello, appunto, di Milano Fiera) interamente nuovi. In altre regioni sarebbe stato possibile?
Ma l’attacco alla Lombardia va ancora più in profondità, diventa morale, come dimostra un altro articolo su La Repubblica a firma di Michele Serra che condanna i lombardi nel loro insieme e la loro mentalità. Un articolo, Il cielo di Lombardia, caratterizzato da un malcelato odio contro “… brava gente però monoculturale, confindustriali lillipuziani, i magutt (manovali) bergamaschi tal quali i padroni delle acciaierie, lavoro, lavoro, lavoro, il resto è solamente un impiccio, una deviazione dalla via maestra”. Una regione dipinta a tinte orrende “L’aria come una discarica, l’acqua come una discarica, la terra come una discarica, la vita intera immolata come un capretto sull’altare della produzione”, quella che Serra definisce “la religione del profitto”. Maledetti siano i lombardi, dunque, che rispettano e praticano l’etica (cristiana) del lavoro e grazie ai quali, ogni anno, 54 miliardi di tasse prodotte in Lombardia vengono redistribuite in tutte le altre regioni italiane.
Ed è da questi articoli che i lombardi possono apprendere il loro futuro. Si parla, polemicamente per ora, di possibile commissariamento. Ma il futuro è chiaro: la centralizzazione, la soppressione del principio di sussidiarietà, che è sempre stato il cuore della Dottrina Sociale, al pari della solidarietà, ma proprio per questo inviso ad ogni politico e intellettuale statalista. La Lombardia, regione atipica, che non campa grazie allo Stato, ma si muove in forza delle sue iniziative private e locali, laiche e cattoliche, per il governo centrale (parafrasando Churchill) è stata a volte una mucca da mungere, a volte una tigre da abbattere. Adesso rischia veramente di essere abbattuta. I lombardi emigreranno in Calabria per farsi curare?