La globalizzazione aiuta i poveri. Per questo la odiano
È criticata e vituperata come il peggiore dei mali. Eppure la globalizzazione può costituire una grossa opportunità di riscatto. Le statistiche dimostrano come lo sviluppo umano, in tutti i sensi, tragga beneficio dallo scambio internazionale, soprattutto nelle realtà più povere del mondo.
È criticata e vituperata come il peggiore dei mali, o almeno uno di questi. Eppure la globalizzazione, se intesa nel modo giusto, può costituire una grossa opportunità di riscatto specie per le popolazioni più povere.
Sembra paradossale ma è proprio così. Non parliamo ovviamente dei casi di sfruttamento dell’uomo o di distruzione del creato, fenomeni che – contrariamente a quanto si crede – poco hanno a che fare con la globalizzazione. Il «termine» infatti - dice la prestigiosa Treccani - è «adoperato, a partire dagli anni 1990, per indicare un insieme assai ampio di fenomeni, connessi con la crescita dell’integrazione economica, sociale e culturale tra le diverse aree del mondo». Si tratta, in pratica, di un grande mercato globale che consente la diffusione non solo di merci ma anche di sapere e conoscenze, a beneficio dei paesi meno sviluppati.
Nel suo sito ufficiale la Banca Mondiale scrive: «Secondo le ultime stime disponibili nel 2011 il 17 per cento della popolazione dei paesi in via di sviluppo viveva con meno di 1,25 dollari al giorno (ovviamente adeguati all’inflazione per essere comparabili ndr). Un numero in calo rispetto al 43% del 1990 e al 52% del 1981». In termini assoluti parliamo di circa un miliardo di persone contro l’1,91 miliardi del 1990 e l’1,93 del 1981. Gran parte del merito di questa novità va proprio alla nascita di un mercato globale che offre nuove opportunità a segmenti della popolazione fino ad oggi completamente esclusi. Pensiamo all’Estremo oriente protagonista di una crescita notevole del settore manifatturiero che non a caso - sottolinea sempre la World Bank - ha comportato una drastica riduzione dell’indice di povertà assoluta dal 78% del 1981 ad appena l’8% del 2011.
Non stiamo dicendo che non esistano ancora, in alcuni luoghi del mondo, condizioni di lavoro inumane e degradanti (su cui peraltro è compito dei singoli governi agire). Quel che stiamo dicendo è che progresso e globalizzazione – la seconda diffonde il primo nel mondo – riducono la povertà, migliorano il tenore di vita e appianano le diseguaglianze, almeno quelle più vistose. Lo confermano a pieno i dati dell’Indice di sviluppo umano che, tenendo in considerazione anche l’aspettativa di vita e l’istruzione oltre al reddito, fra molti economisti ha sostituito il Pil come indicatore del benessere reale di una nazione.
Ebbene, guardando il confronto dell’Isu degli ultimi due anni si scopre come, su 187 paesi del mondo, fra il 2013 e il 2014 solo otto abbiano peggiorato il proprio ranking. Non solo: le riduzioni non superano generalmente il valore di 0,001, mentre i cali più alti del benessere si registrano in Siria (-0,004) e Libia (-0,005), a causa della situazione di conflitto in cui si trovano a vivere gli abitanti. Per il resto si nota come la gran parte del Paesi che non migliorano né peggiorano il proprio Isu (fra cui l’Italia) si trova nella prima parte della classifica: nei primi 40 Paesi 11 restano allo stesso livello del 2013 e tre scendono. Al contrario fra gli ultimi 40 uno resta invariato e uno scende, mentre tutti gli altri migliorano. Il che vuol dire, in soldoni, che i paesi poveri crescono di più e più velocemente, da un punto di vista economico ed umano, rispetto a quelli ricchi.
Ci si potrebbe domandare, certo, se sia tutto merito della globalizzazione. Ancora una volta ci vengono in aiuto i dati: dall’analisi della popolazione al di sotto dell’indice di povertà si deduce come i paesi con la situazione peggiore siano quelli più impermeabili al mercato globale. Il Kenya, il Ciad, il Burkina Faso, la Repubblica democratica del Congo (ex Zaire), Honduras, la Liberia, la Sierra Leone, lo Swaziland o lo Yemen sono tutti Paesi che – per condizioni geografiche o politiche – non riescono ad aprirsi pienamente alla globalizzazione. In molti di essi conflitti interni di carattere politico o religioso (pensiamo alla recente e drammatica strage dei cristiani in Kenya e alle altre sparse per l'Africa) impediscono la stabilità e la cooperazione, condizioni essenziali per conseguire il benessere.
Diceva John Stuart Mill che «il beneficio del commercio internazionale è un più efficiente impiego delle forze produttive del mondo». È solo grazie a questo principio che una popolazione mondiale sempre più numerosa riesce a vivere sempre meglio. In altre parole, anche se a qualcuno suonerà strano, grazie alla globalizzazione.