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ANALISI

La giustizia e i «pentiti», qualcosa non funziona

Già la loro denominazione è un equivoco e un paradosso. E dimostra che anche uno stato laico deve ricorrere all'eredità cristiana.

Attualità 13_05_2011
spatuzza

Li chiamano pentiti. E sono uno dei fenomeni più controversi della giustizia italiana. La loro stessa denominazione è fonte di un clamoroso equivoco, ed espressione di un paradosso. Di un equivoco, perché il termine evoca il ravvedimento della coscienza della persona che ha commesso uno sbaglio morale: pentirsi significa accorgersi di aver fatto del male, e il desiderio di riavvolgere il nastro del tempo per cancellare il passato. Il paradosso sta nel fatto che, proprio in una società laicizzata e anticristiana, il diritto – testa di ponte della secolarizzazione di un popolo – decida di introdurre una categoria morale che è mutuata al cento per cento dalla dottrina cattolica sul perdono.

E’ vero: il termine tecnico è “collaboratori di giustizia”. Ma giornali e tv, insieme agli stessi avvocati e magistrati, li chiamano pentiti. Ora, sarebbe davvero molto bello ed edificante che il sistema penale italiano recepisse in qualche modo gli insegnamenti della Chiesa sulla colpa e sulla pena. Nelle sue linee essenziali, in verità, il diritto anche più secolarizzato è costretto a “copiare” gli schemi della morale cattolica. Lo dimostra il fatto che nelle aule dei tribunali, così come nei confessionali, sono rilevanti la proporzione fra delitto e castigo, l’accertamento del nesso causale, la verifica della capacità di intendere dell’imputato, gli elementi aggravanti e attenuanti. Non c’è niente da fare: anche quando gli uomini giocano a fare i laici, vivono della luce riflessa su di loro dal fatto cristiano.

E tuttavia, i pentiti sono figure controverse, che ogni tanto scatenano la bagarre politica. Il nodo è legato al meccanismo con cui la legge rende possibile la nascita di queste figure. La cosa può essere valutata da due punti di vista opposti. Da un lato, l’”invenzione” dei pentiti nasce dalla necessità di acquisire notizie fondamentali alle indagini. Soprattutto nella delinquenza organizzata, chi confessa e fa i nomi dei colpevoli rischia una vendetta terribile. L’idea del legislatore italiano fu allora quella di “incentivare” queste forme di collaborazione, attenuando le condanne da scontare e prevedendo un programma di protezione, in cambio di informazioni preziosissime. Secondo alcuni, senza i pentiti la giustizia non avrebbe cavato un ragno da un buco. Ma la medaglia ha anche un’altra faccia: i pentiti sono attendibili? Dicono la verità? Quando le loro rivelazioni sono “a scoppio ritardato” vanno prese sul serio?

La politica risponde a questi interrogativi utilizzando il solito, imbarazzante criterio: se il pentito dice cose che mi convengono e che mi piacciono, è attendibile; se dice cose che mi imbarazzano, è un bugiardo. Ovviamente, con un metro di giudizio simile non si va da nessuna parte. Anzi, l’effetto assicurato è il discredito sistematico sulla classe politica, che può essere colpita in qualunque momento dalle “rivelazioni” di un collaboratore di giustizia; e allo stesso tempo il discredito sistematico di ogni pentito, in base alla famosa legge di “al lupo al lupo”, che rende inattendibile il pastorello bugiardo anche quando il lupo c’è davvero.

Come uscirne? Innanzitutto, devitalizzando la dirompente carica mediatica dei pentiti. Le confessioni di un pluripregiudicato, ancorchè collaboratore di giustizia, devono essere vagliate e verificate dalla magistratura. Senza finire in prima pagina su Repubblica. E’ un diritto sacrosanto di ogni cittadino essere tutelato dal fango che qualcuno gli può tirare in faccia. I giudici acquisiscano le confidenze e le vadano a riscontrare, e poi facciano i processi nelle aule.

Quando, molti anni fa, Leonardo Marino permise l’apertura del processo Calabresi con una clamorosa chiamata di correo che coinvolse anche l’intellettuale Adriano Sofri, gli investigatori andarono a vedere minuziosamente se quanto detto corrispondesse ai fatti. Marino era per altro a piede libero, e a quanto pare il suo fu un vero pentimento. Un pentimento nel quale si prova dolore per quello che si è fatto. Un pentimento nel quale, più che agli sconti di pena, il reo pensa alla salvezza della propria anima e al dolore inflitto alle vittime.

Ecco: questo sarebbe un buon prerequisito per stabilire l’attendibilità di un collaboratore di giustizia: andare a vedere se crede all’esistenza dell’Inferno. E al fatto che quel posto non è vuoto e che lì il “fine pena mai” vale per tutti. Ma il problema, forse irrisolvibile, è che gli uomini non possono vedere con certezza che cosa c’è dentro la coscienza dei loro simili. E poi: dove andrebbe a finire la sacra “laicità dello stato”?