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ANTICIPAZIONE

La forza di Giorgio Caproni

Lui si definiva a-teologico, ma in vero scriveva guidato dalla stessa energia che governa le stelle.

Cultura 14_01_2012
Giorgio Caproni

Per gentile concessione, proponiamo dal fascicolo di gennaio del mensile Studi Cattolici, diretto a Milano da Cesare Cavalleri, una riflessione del narratore Luca Doninelli sul poeta Giorgio Caproni nel centenario della nascita.

 

Nelle pagine culturali di giornali e riviste ci si imbatte spesso in una testatina del tipo «arte, letteratura, musica», e io quando la vedo resto sempre un po’ perplesso, o meglio ci rimango un po’ male, come se il giornalista anonimo che ha applicato quella testatina fosse a conoscenza di qualcosa che io non so, vale a dire la differenza fra quelle tre cose, il punto di distinzione radicale, ciò per cui possiamo dire «questa è letteratura, ma non arte», oppure «questa è musica e non letteratura». Spesso sento dire «questa è letteratura, mica musica», oppure «questo quadro è troppo letterario», e sono quasi sempre giudizi negativi; mentre diventano positivi se al posto della letteratura ci si mette la musica («la musica di questo verso») oppure, anche se con maggior moderazione, la pittura («qui l’autore dipinge un grande affresco» ecc.); e francamente non capisco, non mi è chiaro se tutto questo abbia davvero un senso o se sia soltanto un modo di dire.
Quando ero ragazzo, a quindici, sedici anni, io sapevo già con chiarezza che tutta la mia vita si sarebbe svolta nel segno dell’arte, e con questa parola intendevo indifferentemente tutte e tre le discipline contenute nella testatina di cui sopra, nonché altre, come il teatro e il cinema o la fotografia. A quindici anni la vocazione generica prevale sulle specificazioni, e io devo essere rimasto in qualche modo un quindicenne perché a tuttoggi non capisco molto il senso di quelle separazione e dei giudizi che essa presuppone, e se sono finito a fare lo scrittore e non il pittore o il chitarrista rock dipende da circostanze estranee alla mia passione: poca propensione per il disegno, divergenze artistiche con gli altri componenti del mio gruppo rock.

Ma per me l’arte è e rimane una sola. Conoscere un poeta o un fotografo non fa per me alcuna differenza, e da tutti imparo molte cose, anche perché - pur essendomi sempre sottoposto a un grande tirocinio tecnico - non do molta importanza alla tecnica come tale. Non si impara una tecnica se non per negarla e superarla, altrimenti è imitazione, copiatura. E l’arte è un gesto assoluto.

Quando avevo diciassette anni conobbi a Firenze un poeta di nome Dante Giampieri. Oggi nessuno si ricorda più di lui, però scrisse poesie bellissime. Quando una sua raccolta poetica mi passò per le mani ne rimasi affascinato, anche perché Giampieri conosceva bene – ed era stato anche amico di – Ottone Rosai, il grande pittore fiorentino che fu anche mio prozio, e nel cui culto quasi religioso sono cresciuto.
L’avere avuto questo prozio era per me un motivo di differenziazione sociale, come se questa parentela mi desse accesso a una regione dello spirito preclusa ad altri. Dovevo essere antipaticissimo. In ogni caso, fu questa parentela a indicarmi la via dell’arte come una via quasi obbligatoria.
Ma torniamo a Giampieri. Delle sue poesie una mi aveva colpito particolarmente, tanto da mettermi il desiderio di conoscerlo. S’intitolava Parole di Rosai agli amici. Rosai morto appare ai suoi amici e parla dei progetti che la morte gli ha impedito di realizzare. La poesia comincia con questo distico:

Amici, ve lo voglio dire
Io non volevo morire.

C’era soprattutto un verso che mi sorprendeva (e continua a sorprendermi) per la sua grandezza inspiegabile, non riducibile al contenuto:

Volevo mangiare una bistecca alla brace
Con Chiurazzi, a Rosano, in pace.

Il verso secondo me straordinario è il secondo, con quella sua tripartizione che è simile al gesto di raggiungere la cima di un’altura e, da lì, ammirare, inatteso, lo spettacolo di un fiume immenso e placido. In un’edizione successiva della poesia il verso fu stampato con un errore tipografico: «Chiaruzzi» anziché «Chiurazzi». L’errore distruggeva completamente il fascino di quel distico e di tutta la poesia, che era piuttosto lunga. Evidentemente, il segreto di tutto stava lì. Avevo scoperto qualcosa di importante.

Fu precisamente questo verso a indurmi a telefonare a Dante Giampieri per conoscerlo. Mi accolse molto gentilmente. Parlammo di poesia. Da lui sentii parlare per la prima volta di Giorgio Caproni, che Giampieri considerava il maggior poeta italiano (Montale era ancora vivo e vegeto).
Quel giorno stesso acquistai un’antologia in edizione economica delle poesie di Caproni. Mi colpirono soprattutto le Stanze della funicolare, il Congedo del viaggiatore cerimonioso oltre, naturalmente, a Il seme del piangere, che suscitò in me un’impressione profonda. Caproni sembrava conoscere per divinazione il territorio di confine tra la vita e la morte. Nelle poesie che lessi allora non c’era nessun accenno a quel territorio come tale, nel senso che quel confine passava da una strada di Livorno o dai tavolino del bar di una stazione ferroviaria, ma non era ancora un territorio vero e proprio, anche se ricordo perfettamente che proprio questa, «territorio», fu la parola che usai tra me per definire il sentimento suscitato in me da quelle poesie.

Non so se su quell’antologia fosse compreso Il muro della terra, ma credo di no. In ogni caso non ritenni necessario leggere tutto il libro e preferii restare sulle poesie che avevano formato in me un solido nucleo. Il mio rapporto con la poesia è così: l’opera di un poeta produce in me un vortice, alcuni testi si raccolgono al centro di questo vortice e questi testi diventano per me fondamentali, posso leggerli migliaia di volte.

Alcuni anni dopo, però, fu Giovanni Testori a rimettermi in cammino sull’opera di Caproni. Andai un giorno a trovarlo nel suo studio di Via Brera 8 mentre stava scrivendo per il Corriere della Sera la recensione del nuovo libro di Caproni, Il franco cacciatore, titolo desunto dalla famosa operetta di Weber. Testori mi disse che Il franco cacciatore era a suo avviso superiore a Il seme del piangere, e siccome l’editore Garzanti gliene aveva inviato due copie, mi regalò l’altra.
Fu la lettura de Il franco cacciatore a mettermi il desiderio di fare quello che avevo fatto anni prima con Dante Giampieri. Così un giorno, dieci anni dopo Giampieri, andai a Roma, in Via Pio Foà, per incontrare Giorgio Caproni. Fu una conversazione molto allegra. Di essa ricordo perfettamente una discussione sul termine «ateologia», nella quale mi spiegò che non si trattava di un’ateo-logia, bensì di un’a-teologia. In una breve poesia dal titolo Telemessa si rivela il senso di questa parola:

Gridava come un ossesso.
«Cristo è qui! È qui!
«LUI! Qui fra noi! Adesso!
«Anche se non si vede!
«Anche se non si sente!».

La voce, era repellente.
Spensi.
Feci per andare al cesso.

Ci s’era rinchiuso LUI,
a piangere.

Una statua di gesso.

Disse che questa poesia non era affatto una dichiarazione di ateismo, ma di a-teologia. Odiava i discorsi su Dio e gli sarebbe piaciuto fondare una nuova disciplina, una specie di teologia al contrario. Gli dissi che secondo me si trattava pur sempre di teologia: lui non rispose, evidentemente non era d’accordo. In quel periodo il filosofo Giorgio Agamben (che amavo molto) scrisse alcuni saggi importanti su di lui, e a me parve che la sua produzione di quel tempo fosse influenzata dal pensiero di questo suo nuovo amico.

Questo non significa, naturalmente, una perdita di originalità. Testori aveva ragione: Il franco cacciatore è un libro inarrivabile.

L’altra cosa di cui Caproni e io parlammo quel giorno fu il senso di un’espressione che ricorre in lui più volte ne Il seme del piangere, e forse anche altrove (non ricordo).
Parlando della madre da giovane e della sua bellezza delicata il poeta afferma, ne L’uscita mattutina, che «... l’andatura / ilare - la cintura / stretta, che acre e gentile / (Annina si voltava) / all’opra stimolava». E in Quando passava dice: «Che voglia di lavorare / nasceva, al suo ancheggiare!».

Allora fui molto colpito da questo rapporto tra bellezza e lavoro. Capivo che si sarebbe potuto scrivere un libro sull’argomento. La sua spiegazione non fu, ovviamente, una spiegazione. «Immàginati», disse, «una bella ragazza che cammina per strada. Passa davanti al negozio del ciabattino che è lì che batte, svogliato, col martelletto sull’incudine: ta-ta-ta-ta. Ma come il ciabattino la vede, subito il ritmo cresce: tattattattattà».

Questa immagine si piantò bene dentro di me: essa conteneva un enigma, questo era evidente, ma quale? Prima o poi avrei cominciato a capire qualcosa.
Infatti qualcosa ho capito. Riporto per intero L’uscita mattutina:

Livorno, quando lei passava
d’aria e di barche odorava.
Che voglia di lavorare
nasceva, al suo ancheggiare!

Sull’uscio dello Sbolci
un giovane dagli occhi rossi
restava col bicchiere
in mano, smesso di bere.

Al tempo del mio incontro con Caproni non avevo prestato attenzione ad alcune cose presenti in questi mirabili versi. Per esempio il verbo «nascere». La voglia di lavorare non tornava ma nasceva. Era dunque una voglia di lavorare nuova.
Ma il tema della nascita pervade in realtà tutta la poesia. Il primo distico è il più sorprendente: «Livorno, quando lei passava / d’aria e di barche odorava». Ma Livorno odora sempre di barche, e quanto all’aria, quando mai si sente l’odore dell’aria? Il poeta intende, credo, l’aria di mare, l’aria salsedinosa. Ma, anche qui, che cosa c’è di strano? Sarebbe l’odore di sempre.
Tuttavia, nella poesia Né ombra né sospetto si legge: «Livorno le si apriva / tutta, vezzeggiativa: / Livorno, tutta invenzione / nel sussurrare il suo nome». Questi versi gettano una nuova luce sui precedenti e spiegano perché al passaggio dell’Annina, la madre del poeta, Livorno sapeva «d’aria e di barche», ossia di Livorno. La ragione è che Livorno nasceva tutta con lei, e con lei prendeva vita, la propria vita. La voglia di lavorare rappresenta perciò un incremento ontologico, un essere di più.
Il lavoro, l’opra, è la risposta dell’io al richiamo dell’essere: la consapevolezza che ne consegue genera una naturale vergogna nel giovane, che sull’uscio dell’osteria la guarda passare, col bicchiere ancora in mano, ma senza più bere: come se si trovasse in mezzo al guado dell’Acheronte, in bilico tra corpo e ombra, sul margine dell’affioramento dal Nulla.

Caproni era un maniaco del verso. Mi raccontò che qualche giorno prima un famoso attore aveva letto per radio una sua poesia senza capire nulla, e che lui gli telefonò (o aveva desiderato farlo) non già per ringraziarlo ma per ricoprirlo di insulti. Il povero attore, di cui non faccio il nome, si era reso colpevole di vilipendio verso la Poesia leggendo un suo verso, «son già dentro la morte», in questo modo:

son già (pausa) dentro la morte

mentre anche un bambino di due anni, secondo il poeta, avrebbe dovuto capire che il senso era tutt’altro, e che il verso culminava con dentro, e quindi:
son già dentro (pausa) la morte.

Non chiesi a Caproni se la pensasse come me riguardo alla distinzione tra «arte», «letteratura» e «musica». Però sapeva suonare il violino. In quei giorni si allenava su Mozart. Disse di avere scritto Il franco cacciatore alternando l’ascolto di Weber (di cui il suo libro era, a suo dire, nient’altro che una parodia scherzosa, mentre è uno dei capolavori della poesia di tutti i tempi) agli esercizi con il violino. Quel giorno si era fatto male a un dito e non poteva («mannaggia») mostrarmi la corrispondenza a suo parere esatta tra certe parole del suo poema, emistichi o versi interi, e certi movimenti che la mano e l’archetto compiono sullo strumento.
Non credo che volesse, in questo modo, rivelarmi alcun segreto. Secondo me voleva solo depistarmi, fare atterrare la mia troppo giovane età sulla pista delle rassicurazioni, delle conoscenze certe. La poesia è pericolosa, perché ci obbliga a rinascere, proprio come fa Dio, che quando arriva non ci lascia nel letto a sognare, non ci permette di oziare col bicchiere in mano. Una volta assunti al Suo servizio, c’è ben poco tempo per dormire. Caproni capì qualcosa della natura di Dio non andando in chiesa ma facendo poesia.

Un giorno forse capirò anche in che modo l’arte del tergiversare, che fece parte della sua prima produzione (il titolo Congedo del viaggiatore cerimonioso e altre prosopopee dice chiaramente dell’elaborazione teorica che Caproni raggiunse, sull’argomento), si trasformò via via in questa caduta precipitosa, in questa corsa forsennata di ogni parola, di ogni sillaba, di ogni accento verso il Centro.

Questa duplice attitudine, apparentemente contraddittoria, dice forse un altro aspetto della poesia: la sua somiglianza - prima di qualsiasi tema, o contenuto - con la struttura stessa dell’Universo, che è anch’esso lentezza e precipizio, o meglio lentezza precipitante.
E ha una forza, la poesia, che qualcosa desume davvero dall’energia che governa le stelle. Io incontrai la forza di Caproni nei versi di un suo umile ammiratore; ne ripeto il nome, Dante Giampieri, perché il mio omaggio a Caproni è e deve essere anche un omaggio a lui.