NORVEGIA
La follia di Breivik e la profezia di Ibsen
La tragedia di Oslo e gli scritti del drammaturgo norvegese: il prossimo è un mistero, e senza la fiducia in un Mistero più grande la vita è assurda.
Cultura
30_07_2011
Un gesto terribile come quello di Anders Behring Breivik, che il 22 luglio a Oslo ha fatto esplodere una bomba e poi sparato sulla folla, è qualificato, regolarmente, con l’aggettivo, “folle”. Questa carneficina rivela una tenebra nell’anima che fa paura. Paura perché, apprendiamo sgomenti, l’attentatore dalle idee deliranti non era un emarginato, un reietto: era bene inserito nella società, e chi sa quanti, ora, dopo i 93 morti, pensano con un brivido a quando l’hanno incrociato. Fa spavento il pensiero che sotto le apparenze gentili del vicino, del pacifico coltivatore di prodotti biologici, si possa celare l’autore di una strage.
L’interrogativo è sempre: che cosa si agita dietro il viso cordiale di chi incrociamo ogni giorno, di chi consideriamo piacevole e ammodo? Bisogna che ci sia una dose potente di incomunicabilità, una carica esplosiva devastante nella nostra vita quotidiana; anzi, se agitassimo questo pensiero ossessivamente ogni giorno della nostra vita, mineremmo la nostra serenità, la nostra fiducia, e saremmo preda della disperazione. Al di là di quanto stabiliranno le perizie, tutte cose di cui non siamo esperti -e su cui ci verrebbe voglia di non sapere più nulla, tanto mostruosi sono i fatti- non possiamo che pensare ad autentiche tenebre dell’anima, a un gelo nel cuore che evoca il ghiaccio implacabile da cui Dante immagina torturati i peccatori del Cocito. Perché nel profondo dell’Inferno non c’è fuoco, non c’è calore, ma solo freddo, gelo, la sensibilità azzerata, il freddo ghiacciato di chi vive in superficie l’esistenza di tutti i giorni e intanto, prepara, a tradimento, sotto la maschera del vicino gentile e sorridente, del ragazzone sano e robusto, la morte per chi lo circonda. Ci chiediamo come è possibile non aver capito nulla prima, e, soprattutto, se fosse stato possibile sospettare, intuire qualcosa prima.
Questa domanda, che cosa mai possiamo sapere davvero di chi ci circonda, di quello che pensa e che gli passa per la testa, come possiamo conoscere davvero chi ci sta accanto, a che a strettissimo contatto, è sotterranea anche in Casa di Bambola, la più celebre delle opere di Ibsen, il maggior drammaturgo norvegese. Quando si parla di “incomunicabilità”, il pensiero corre infatti subito a certo cinema scandinavo, a Bergman; ma non dimentichiamo che il teatro aveva già esplorato questa dolorosa tematica, a partire, appunto, dal drammaturgo norvegese, autore di Casa di Bambola e di Hedda Gabler. In entrambi, domina il tema dell’incomunicabilità che raffredda i rapporti, li congela e li sterilizza, anche fra coniugi.
Emblematico è Casa di Bambola (1879) in cui Ibsen, nella sua prospettiva disperata e senza speranza, mette in scena un dramma dove, è vero, non si spande sangue, ma si getta un’ombra sinistra sull’incomunicabilità che diventa un muro all’interno di una stessa famiglia. La storia è nota: la giovane Nora, moglie di Helmer, ha falsificato un documento per salvare la sua famiglia. È sempre stata una figlia obbediente e una moglie adorata, anche se il modo in cui Helmer la tratta sa più di paternalismo che di franco dialogo familiare, a partire dagli appellativi che le riserva, che grondano affetto (“Lodoletta”, “lucherino sventato”, “scoiattolino”, “piccola dissipatrice”, “bambina”, “la mia ghiottona non ha ficcato il nasino in qualche pasticceria?”, “piccolo uccellino spaurito”), ma che sarebbero più adatti a una bambina dispettosa e spendacciona che non a una moglie con cui condividere un progetto di famiglia. Non a caso, la proposta che Helmer fa a Nora quando la catastrofe è prossima esplodere è avvilente e sa di chiusura al mondo, perché è la proposta di costruire, a beneficio delle apparenze, un teatrino che rappresenti la famigliola felice: “Si tratta si soffocare lo scandalo a qualsiasi prezzo. … Beninteso, per le apparenze. Continuerai a stare qui, naturalmente. Ma ti sarà proibita l’educazione dei bambini…non oserei più affidarteli … D’ora in poi non esiste più per noi la felicità; dobbiamo soltanto preoccuparci di salvare i frantumi, le apparenze…”.
Quando però la minaccia si cancella dall’orizzonte, quando il fatale documento che può causare la rovina di famiglia e reputazione viene restituito perché il ricattatore s’è sentito toccare il cuore da un avvenimento inaspettato, Helmer pensa che la vita possa riprendere esattamente come prima; è invece Nora a disilluderlo. All’insaputa del marito, in lei è avvenuto un gran cambiamento, cui ha fatto da catalizzatore la violenta evoluzione dei fatti. Quando la giovane chiede al marito di parlare, è chiaro che, dolorosamente, Helmer non comprende nulla di chi gli sta davanti: “Siamo posati da otto anni. Ed è la prima volta che parliamo seriamente, come marito e moglie. Riflettici … Otto anni sono passati … e anche più … e in tutto questo tempo non ci siamo mai scambiata una parola seria su un argomento serio” (atto III).
Quanti potrebbero dire la stessa cosa del rapporto che li lega a chi li circonda? Nora prosegue, dichiarando di non poter più patire, ormai, la sua condizione di “bambola” come imprigionata nella situazione, comoda, prima di figlia e poi di moglie senza personalità (da qui il titolo): “Quando stavo con mio padre, egli mi esponeva le sue idee, e io le condividevo. Se pensavo diversamente, non me ne facevo accorgere. La cosa lo avrebbe contrariato. Mi chiamava la sua piccola bambola… Poi … dalle mani di mio padre, sono passata nelle tue. Tu hai sistemato tutto secondo i tuoi gusti, e io li condividevo, o, almeno, facevo finta di accettarli. Non lo so. Forse un po’ una cosa, e un po’ l’altra. Se guardo al passato, mi sembra di essere vissuta come una mendicante: alla giornate. Per guadagnarmi da vivere, ho dovuto fare delle piroette per te, e questo ti divertiva tanto!” (atto III). Helmer non può negare che ci sia una buona dose di verità in queste parole (C’è qualcosa di vero in quello che dici…per quanto tu esageri, ibid.); ma, nella sua furia destruens, Nora contesta tutto (religione, famiglia, etc.), sino a che, di fronte a un marito sempre più stupefatto e basito, afferma che se ne andrà di casa, perché “io devo, anzitutto, pensare a educare me stessa. Ma tu non sapresti aiutarmi, devo fare da sola. Per questo ti lascio … non c’è altra soluzione per me”.
Il dramma si conclude con il tonfo della porta di casa, chiusa dietro le spalle di Nora, a seguito di un anti-scambio delle fedi, quando ha preteso cioè che il marito le restituisse il suo anello, facendo anch’ella altrettanto. Interpretato il più delle volte come un manifesto delle incipienti rivendicazioni femminili, in linea con le richieste delle suffragette, Casa di bambola è però, anche e soprattutto, un apologo sui temi tipici del teatro di Ibsen e di tanta arte scandinava, sulla disperazione e l’incomunicabilità, su quanto sia difficile leggere davvero nella mente di chi ci circonda e ci vive accanto.
Il nostro prossimo è un mistero: e senza la fiducia in un Mistero ancora superiore (al marito che le domanda se resteranno sempre e solo due estranei, Nora risponde che “dovrebbe accadere il più grande dei miracoli… dovremmo entrambi trasformarci a tal punto…ma io non credo più nei miracoli") la nostra vita sarebbe ben insensata e assurda, senza luce e in preda alla sola disperazione.