La fabbrica delle pensioni, un cantiere infinito
Il cantiere della riforma delle pensioni è come quello del Duomo di Milano, non finisce mai. Non potrà mai finire. Perché la previdenza dipende sempre da dinamiche imprevedibili. L'aumento della speranza di vita media e il crollo dei posti di lavoro hanno reso il sistema insostenibile. La riforma Renzi risolverà il problema?
Il cantiere della riforma delle pensioni è come quello del Duomo di Milano, non finisce mai. Non potrà mai finire: il Duomo perchè avrà sempre bisogno di manutenzione, le pensioni perchè tutti i fattori in gioco, e sono molti, hanno una dinamica sicura, ma solo in parte prevedibile.
L'anno prossimo sarà così caratterizzato da alcune novità importanti. Vi sarà un meccanismo per consentire un anticipo fino a tre anni e mezzo, saranno rivalutate le quattordicesime per le pensioni più basse, saranno più facili le ricongiunzioni tra gestioni diverse, sarà ampliata l'area dei redditi esenti dalle imposte. Tranne l'anticipo pensionistico, battezzato come Ape, tutte le altre misure riguarderanno le pensioni più basse in modo da costituire in qualche modo anche un capitolo della lotta alla povertà.
Ma perchè il sistema pensionistico va regolarmente rivisto? Dall'inizio degli anni '90 si sono susseguite riforme e controriforme. Dopo la riforma Dini, che ha introdotto con molta gradualità il metodo di calcolo contributivo, vi è stata per esempio la riforma Maroni, che mirava ad innalzare l'età pensionabile, riforma che tuttavia è stata praticamente smontata dal successivo governo Prodi. Fino ad arrivare al 2011 quando, in piena emergenza economica, una delle riforme più drastiche del Governo Monti fu proprio quella della pensioni elaborata dal ministro Elsa Fornero. Il problema di fondo è che il sistema pensionistico è uno dei maggiori capitoli del bilancio pubblico: la spesa pensionistica raggiunge infatti i 270 miliardi di euro per poco più di 16 milioni di pensionati (in effetti le pensioni sono molte di più dato che molti pensionati ne ha almeno due). C'è da notare anche che 14 milioni di pensioni derivano direttamente dai contributi versati, mentre per 4 milioni si tratta di trattamenti più assistenziali che previdenziali, comprendendo pensioni sociali, assegni di accompagnamento, integrazioni al minimo e tante altre fattispecie.
Negli ultimi anni poi il sistema è stato sottoposto ad un doppio effetto: da una parte è diminuita l'occupazione, dall'altra è continuata a crescere l'aspettativa di vita e quindi il periodo di tempo in cui le persone godono, fortunatamente per loro, di una rendita pensionistica. Negli ultimi cinquant'anni la speranza di vita alla nascita è salita di ben dieci anni: dai 72 anni del 1964 agli 82 anni attuali. Quindi maggiori spese e minori introiti. Una tendenza che peraltro appare strutturale, sia sul fronte dell'aspettativa di vita, anche grazie ai continui progressi della medicina e alla maggiore educazione sanitaria e alimentare, sia sul fronte dell'occupazione, per effetto della rivoluzione tecnologica che non investe solo l'industria, ma anche il settore terziario dove, per esempio, le banche sono di fronte alla necessità di forti riduzione del personale.
Aumentare l'età pensionabile non è comunque solo uno slogan, ma una necessità. E peraltro le regole attuali prevedono già un progressivo innalzamento fino a oltre 67 anni. Ma non tutti i lavori sono uguali, non tutti i pensionati hanno le stesse condizioni di vita: ecco allora la necessità di studiare formule flessibili che permettano di scegliere le condizioni con cui uscire dal mondo del lavoro. Se il sistema pensionistico fosse totalmente contributivo (cioè fondato sul rendimento dei contributi effettivamente versati da ciascuno) il problema non si porrebbe: la pensione sarebbe commisurata ai contributi effettivamente versati. Ma di contributivo nel sistema italiano c'è solo, e non del tutto, il sistema di calcolo delle pensioni e non quello di finanziamento. In pratica le pensioni sono pagate dai contributi di coloro che attualmente lavorano con un meccanismo a ripartizione che viene chiamato di "solidarietà intergenerazionale".
Per evitare il paradosso che si è creato dopo la riforma Fornero del 2011 (si è levata l'età pensionabile e poi si sono varati ben otto provvedimenti di salvaguardia per coloro che avevano subito gli effetti di questa legge), il Governo proporrà un meccanismo, l'Ape, in cui sarà ogni pensionato a finanziare il proprio anticipo all'uscita dal mondo del lavoro. In pratica dovrebbe essere permesso di anticipare il pensionamento fino a un massimo di 3 anni e 7 mesi per i lavoratori che, raggiunti i 63 anni, non avranno maturato i requisiti per la pensione. Grazie a un prestito finanziato dalle banche e garantito dalle assicurazioni e da interventi del Governo, il pensionato riscuoterà una rendita ridotta, non pagherà contributi, ma prenderà per sempre una pensione più bassa. Il Governo dovrà comunque finanziarie le uscite anticipate per particolari tipi di lavori usuranti, per coloro che saranno costretti a lasciare il lavoro, per i lavoratori precoci che hanno già pagato almeno 45 anni di contributi.
Fatti i conti, e salvo eventuali condizioni di favore, il meccanismo dell'Ape, appare comunque particolarmente oneroso ed è tutto da dimostrare che possa avere le grandi adesioni che vorrebbe il sindacato, un sindacato che è convinto che permettere l'uscita dei lavoratori anziani costituirà una grande facilitazione per dare lavoro ai giovani. Ma, in una situazione congiunturale come quella in cui siamo, le previsioni in questa direzione appaiono abbastanza temerarie.
Siamo di fronte quindi ad una nuova riforma che avrà sicuramente ricadute positive per l'aumento delle pensioni più basse. E chi non puó essere d'accordo nel dare qualche soldo in più ai poveri? Non importa se poi le pensioni più basse sono quelle di lavoratori che hanno pagato meno contributi e non li hanno pagati affatto. O magari se aumentano le pensioni a chi ne ha più di una. Rischia infatti di restare nel cassetto la proposta del presidente dell'Inps Tito Boeri, di collegare gli aumenti al vero e complessivo reddito familiare, quello dell'Isee, che comprende anche le attività finanziarie.
Così come resta nel cassetto la volontà di dare spazio e incentivi a quella previdenza complementare il cui sviluppo sarebbe la vera soluzione di lungo termine per il sistema delle pensioni.